1. Qualche premessa
– Oggetto specifico di attenzione è la condizione degli enti locali ricompresi nelle regioni speciali e province autonome, a seguito della riforma del Titolo V Cost. Si prescinde quindi da ogni considerazione o approfondimento sul futuro della specialità regionale, ossia sul senso e le prospettive di un regionalismo costituzionalmente differenziato che, dopo cinquant’anni di esperienza repubblicana, si presenta comunque in una nuova luce, da un lato in virtù delle esigenze di adeguamento degli statuti speciali prefigurato dall’art. 10 della l.c. 3/01 (che ha riconfermato le cinque regioni previste nel 1948), dall’altro in ragione di alcune nuove previsioni di regionalismo asimmetrico contenute nell’art. 116 III e, ancor più, nello scenario ipotizzato dal ddl Bossi.
– Il baricentro della presente riflessione è costituito dall’esigenza (che appare imprescindibile) di garantire effettività, anche nell’ambito delle regioni speciali, alle forme più ampie di autonomia previste (anche) per le autonomie locali dal nuovo testo costituzionale, che sviluppa a pieno il principio fondamentale dell’art. 5 Cost., in sintonia anche con la Carta Europea dell’autonomia locale (creando i presupposti per quello che, in coerenza con lo stesso art. 5, dovrebbe essere il costante adeguamento dei principi e dei metodi della legislazione, statuale e regionale, alle esigenze dell’autonomia).
– Si tratta, quindi, di una questione in certo modo circoscritta rispetto all’orizzonte amplissimo aperto dalla riforma costituzionale, la cui portata potenziale (se realmente percepita e realizzata) può trasformare radicalmente e modernizzare il sistema dei pubblici poteri e dell’amministrazione, nel quadro di una nuova statualità fondata sul policentrismo e sulla valorizzazione più ampia possibile delle autonomie, sia sociali che territoriali, a partire da quelle più prossime ai cittadini (in cui maggiormente si può realizzare una “cittadinanza attiva”).
– Ma, al tempo stesso, si tratta di una questione essenziale per verificare le prospettive specifiche della condizione di autonomia di comuni e province nell’ambito delle regioni speciali, le quali hanno tutte visto ad esse riconosciuto, con la l.c. 2/93, quel potere di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni che la Sicilia già aveva fin dall’origine: potere da mettere ora a raffronto con le innovazioni costituzionali intervenute, al fine di saggiarne la possibilità di tenuta o l’eventuale superamento o il grado di adeguamento necessario al fine di garantire comunque le “forme di autonomia più ampie” delineate dalla novella costituzionale per gli enti locali.
– Una questione, peraltro, certamente complessa – anche sul piano tecnico (tenuto conto oltretutto della diversità di regimi vigenti in ciascuna delle cinque regioni speciali) -, tanto più perché in larga misura inesplorata o sottovalutata sia dalla letteratura (tranne pochissime eccezioni), sia dal legislatore e dalla stessa giurisprudenza (nonostante qualche significativa pronuncia): in tal senso può essere utile, specie a fini conoscitivi in ordine alle fonti nazionali e regionali, il “Rapporto” in itinere, ai cui materiali provvisori si rinvia.
– Articolando (nel modo più sintetico possibile) il tema, si possono individuare essenzialmente tre ordini di interrogativi a cui cercare di dare risposta per orientarsi in questa fase “fluida”, in cui sembra aprirsi un certo spazio per dar vita sia ad intese interistituzionali utili per governare in modo appropriato (ossia condiviso) le necessarie trasformazioni normative conseguenti alla riforma costituzionale, sia a primi (ancorché già tardivi) interventi del legislatore ordinario al fine di avviare l’attuazione almeno delle parti prioritarie del nuovo disegno.
2. Quale la condizione istituzionale dell’autonomia locale nelle regioni speciali prima della recente riforma costituzionale
– E’ anzitutto da rilevare la eterogeneità sia delle previsioni originarie degli statuti in materia di enti locali, sia delle concrete esperienze sviluppatesi fino agli anni ’90 in tali ambiti, in parte legate anche alle diversità oggettive delle rispettive realtà territoriali locali e del loro assetto storico (v. VdA senza province; TAA con due province autonome; SI con liberi consorzi), solo in parte uniformate dalla previsione, comune a tutte, di una potestà legislativa primaria delle regioni in parola in materia di ordinamento e circoscrizioni degli enti locali, contenuta nella l.c. 2/93 (nata anzitutto – se non soprattutto – dall’esigenza di estendere “almeno” le innovazioni più significative della l. 142/90 anche agli enti locali ricompresi in regioni speciali): innovazioni che, invero, avrebbero di per sé potuto avere valore anche nell’ambito delle regioni speciali, riconoscendo alla l. 142 la veste di riforma economico-sociale, come sostenuto da vari autori (a cominciare da Pototschnig per finire a Rolla e Groppi).
– Comunque con la l.c. 2 si è assunto un orientamento in qualche modo tendente a “regionalizzare”, almeno in parte, il sistema delle autonomie locali, pur nel quadro di una serie di punti fermi e di orientamenti generali comuni fondati sul tenore “generale” dei vincoli costituzionali derivanti dagli artt. 5 e 128 (non a caso richiamati espressamente dalle norme di attuazione del FVG): la ratio di questo spostamento del baricentro verso le regioni va peraltro chiaramente rintracciata, come documentano i lavori preparatori, anche nell’obiettivo, allora particolarmente sentito, di un maggiore sviluppo dell’autonomia locale, con un ruolo di “battistrada” prefigurato per le regioni speciali rispetto alla stessa consistente valorizzazione dell’autonomia locale avviata dalla l. 142.
– In realtà l’attuazione di questo disegno – certo ambizioso, ma in sé condividibile, al di là dei rischi di eccessive differenziazioni di ordinamento – ha incontrato molteplici difficoltà, sia a livello delle singole regioni che nel necessario raccordo con l’ordinamento generale; in effetti si possono sottolineare in proposito almeno tre ordini di punti problematici:
n eterogeneità di approcci, spesso settoriali, da parte delle regioni, date anche le diverse situazioni territoriali, con forti propensioni a privilegiare soprattutto aspetti di riassetto territoriale, specie in ordine agli enti intermedi tra comuni e regioni (province, comunità montane, queste ultime anello debole perché prive di copertura costituzionale, e quindi non a caso messe in discussione in quasi tutte le regioni speciali), piuttosto che a dar vita a organiche forme di riassetto e decentramento delle funzioni, creando al tempo stesso le condizioni utili per un effettivo esercizio locale delle stesse, anche con riforme delle strutture locali e delle forme di relazione e collaborazione;
n tendenza marcata (di gran parte delle regioni speciali) ad un forte centralismo, con ritenzione di funzioni, ovvero con ricorso a mere deleghe agli enti locali (più che a trasferimenti), nonché a forme di relazione “gerarchiche”, con debolezza dei meccanismi di concertazione e, piuttosto, attenzione agli strumenti del controllo (v. in tal senso i significativi dati del “Rapporto”);
n d’altra parte, si sono registrati ricorrenti ritardi, frequenti vischiosità e problemi vari nel raccordo tra autonomie legislative regionali e quadro nazionale comune in materia di enti locali, tra l’altro con le ben note “complicazioni” delle “rincorse” – più che delle “anticipazioni” – delle regioni speciali rispetto a riforme introdotte a livello nazionale (v. leggi 142/90, 81/93, 59/97, 265/99 e Tuel n. 267/00), nonché con pluralità ed eterogeneità – talora forse casuale – dei metodi e delle clausole utilizzate di volta in volta per realizzare l’estensione di soluzioni innovative nazionali utili per l’autonomia locale (in base alla clausola di continuità sancita in quasi tutti gli statuti speciali), estensione spesso frenata dalla preoccupazione “formale” di rispettare gli ordinamenti costituzionali regionali speciali (v. clausole sbrigative e generiche di compatibilità, come quella dell’art. 1 II del Tuel n. 267/00, oppure di rinvio, oppure i silenzi, oppure ancora la singolare soluzione suppletiva prevista dall’art. 29 della l. 289/02).
– In definitiva, si può tracciare un bilancio in chiaroscuro, nel quale gli aspetti problematici sembrano per molti versi prevalenti, specie in alcune regioni, laddove si sono consolidate propensioni (regionocentriche) non solo volte a guidare dal centro l’autonomia locale ma anche a ridimensionarne consistentemente la portata: propensioni a maggior ragione censurabili a voler tener conto di talune importanti acquisizioni previste per gli enti locali dalle riforme nazionali (ad es. in relazione alle conseguenze del principio di sussidiarietà); tutto ciò nonostante una giurisprudenza costituzionale che, pur non frequente, è stata assai esplicita e in equivoca nel ribadire il valore generale e pervasivo dell’autonomia locale ex artt. 5 e 128 Cost. anche nell’ambito delle regioni speciali (v. ad es. sent. 83/97, che ha espressamente sancito che “la garanzia delle comunità territoriali minori non può subire significative alterazioni quando, anziché il sistema delle autonomie ordinarie, venga in considerazione quello delle autonomie speciali ove sono presenti competenze regionali (e provinciali) esclusive”).
– A fronte di casi (virtuosi) in cui l’affidamento alla regione di un potere di ordinamento degli enti locali ha portato a risultati certamente positivi e apprezzabili (v. ad esempio la previsione in VdA di un affidamento di tutte le funzioni amministrative ai comuni, salvo quelle espressamente riservate alla regione; v. i meccanismi di rafforzamento delle capacità di autogoverno e di servizio dei comuni “in consorzio” nelle province autonome di Trento e di Bolzano, nonché in VdA), si registrano soprattutto realtà di segno opposto, di cui sono espressioni tipiche le forme di delegazione – e non di trasferimento – di funzioni, con riserva alla regione di penetranti forme di controllo anche di merito, nonché la ricorrente debolezza delle sedi di concertazione; ed anche laddove l’autonomia degli enti locali ricompresi in regioni speciali sembrerebbe poter contare su una condizione più favorevole rispetto agli enti omologhi ricompresi in regioni ordinarie, come in materia di risorse finanziarie disponibili, spesso i meccanismi volti a definire – talvolta con cadenza annuale e non con una visione di lungo periodo – l’entità dei trasferimenti regionali agli enti locali finiscono per determinare situazioni di oggettivo condizionamento, se non di forte dipendenza degli enti locali dalla regione.
3. Quali possibili effetti di maggiore garanzia dell’autonomia locale nelle regioni speciali dopo la riforma costituzionale
– Senza ripercorrere qui i contenuti e gli effetti salienti della riforma del Titolo V (in termini di equiordinazione delle istituzioni costitutive della Repubblica, di abrogazione di controlli preventivi, di superamento del parallelismo tra poteri legislativi e amministrativi, di garanzia di maggiore autonomia normativa, amministrativa e finanziaria di comuni e province, in sintonia con i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione), va comunque almeno accennata (e sottolineata) una conseguenza particolarmente significativa per gli enti locali, derivante dal nuovo quadro costituzionale, in ragione del venir meno di una cornice nazionale generale dell’ordinamento di comuni e province (come nel Tuel), essendo circoscritto il potere legislativo statale alle sole materie elencate nella lettera p dell’art. 117 II.
Ciò premesso, un primo punto da prendere in considerazione in questa sede riguarda la latitudine che può avere attualmente il potere di ordinamento degli enti locali nelle regioni speciali: a tale proposito non si può non sottolineare la necessità che i nuovi principi e le nuove garanzie dell’autonomia locale debbano essere riconosciuti per tutti i comuni e province della Repubblica. In tal senso, quindi, appare impossibile oggi configurare un potere regionale di ordinamento degli enti locali della medesima latitudine prevista dalla l.c. 2/93; in conseguenza, dovrebbe essere interpretata necessariamente anche la portata di quanto previsto nell’art. 10 l.c. 3/01, laddove si prevede un adeguamento (automatico) per le “forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite” (può essere perciò utile, a tal fine, se non indispensabile, per evitare equivoci applicativi, anche un chiarimento nel ddl La Loggia, laddove si intende riprendere e puntualizzare il significato del suddetto art. 10, evitando peraltro di circoscrivere al solo livello della autonomia regionale, come sinora si è proposto nel ddl, la portata della garanzia di adeguamento).
– D’altra parte, vi sono certamente innovazioni contenute nel nuovo Titolo V da considerare autoapplicative, ossia suscettibili di essere applicate senza l’esigenza di alcun intervento legislativo attuativo del disposto costituzionale: ciò è del tutto evidente, ad es., in campo di autonomia normativa, statutaria e regolamentare, di comuni e province, visto il tenore rispettivamente dell’art. 114 II e dell’art. 117 VI, ma analogamente si potrebbe dire, ad esempio, in campo di superamento dei controlli preventivi necessari (per i quali gli statuti speciali contengono formule del tutto simili, se non identiche, a quelle degli abrogati artt. 125 I e 130 Cost.); ne consegue un rilevante spazio aperto per l’autordinamento di ciascun ente locale, nel cui ambito debbono essere disciplinati anche gli autocontrolli (che sono una chiave di volta di una visione responsabile dell’autonomia locale). A tale proposito va sottolineato che appaiono davvero singolari (e superflue) certe propensioni a ribadire il potere statutario e regolamentare degli enti locali, quasi a volerlo legittimare formalmente (v. ddl La Loggia e l.r. 13 FVG), mentre appaiono certamente contraddittorie (e sostanzialmente inammissibili) certe tendenze a “risuscitare” i Coreco e forme di controllo preventivo eventuale o poteri sostitutivi regionali nei confronti degli enti locali, come previsto in talune recenti disposizioni legislative di regioni speciali, oltretutto successive alla riforma del Titolo V (v. SA e FVG, le cui previsioni in materia sono, non a caso, oggetto di giudizio costituzionale pendente).
– Vi sono tuttavia altrettanto sicuramente una serie di innovazioni costituzionali riguardanti forme più ampie di autonomia locale non immediatamente operative, per la cui applicazione è indispensabile (o comunque utile a vario titolo) la interpositio legislatoris: ciò specialmente, ad esempio, con riferimento alla determinazione delle funzioni fondamentali di cui alla lett. p dell’art. 117 II, nonché in rapporto alla determinazione delle concrete funzioni amministrative e delle relative risorse (ex artt. 118 e 119); a tale proposito, per quello che qui interessa, si deve soprattutto stabilire se la portata del nuovo quadro costituzionale fissato in base alle norme precedenti debba o meno riguardare anche gli enti locali delle regioni speciali, riconoscendo quindi l’esistenza di alcune “invarianti” di base dell’intero sistema nazionale delle autonomie locali; la soluzione interpretativa che appare a tal fine obbligata induce a sottolineare che le forme più ampie di autonomia costituzionalmente stabilite per ciascuna categoria di enti locali della Repubblica non possano che valere “come minimo” anche gli enti locali ricompresi in regioni speciali (soluzione, questa, che non impedisce, peraltro, di configurare uno spazio per uno sviluppo autonomo della “specialità” di ciascuna regione a statuto differenziato, spazio utilizzabile per ampliare ulteriormente l’autonomia locale o per supportarla in modo peculiare, ad esempio in ordine alle strutture o alle procedure di concertazione, che sono da considerare un elemento essenziale del nuovo disegno, fondato sulla condivisione e la leale collaborazione, e non più sulla separatezza o la unilateralità).
– La questione appena accennata riguarda soprattutto (o anzitutto) la determinazione di quelle funzioni che debbono essere considerate “fondamentali”, anche in quanto elementi di coesione dell’intero sistema nazionale: da questo punto di vista assume quindi un rilievo del tutto particolare l’esigenza di definire il più possibile in modo puntuale e appropriato – oltre che tempestivo – il quadro delle funzioni (siano esse da considerare storicamente “proprie” oppure riconosciute comunque come essenziali e imprescindibili per la tenuta unitaria del sistema statuale) che rivestano tale caratteristica di fondamentalità e che debbano quindi essere considerate invarianti (come minimo) anche ai fini dell’applicazione dei principi dell’art. 118 nelle regioni speciali, ferma restando la loro autonomia statutaria e legislativa (in quanto compatibile con i principi ricavabili dal nuovo ordinamento costituzionale). In tal senso è da approfondire anche il passaggio, invero assai apodittico, contenuto nella recente sent. n. 48/03 Corte cost., laddove sembra escludersi che il potere di ordinamento degli enti locali attribuito alle regioni speciali dagli statuti sia intaccato dalla riforma del Titolo V (ma probabilmente questa notazione, del tutto incidentale, ha il solo scopo di salvaguardare il principio della specialità; altrimenti esprimerebbe, tra l’altro, un orientamento difforme da altre recenti sentenze, che hanno riconosciuto l’esistenza di limiti “trasversali” anche per le regioni speciali: v. ad es. n. 536/02).
– In effetti, a maggior ragione osservando quanto le regioni speciali (tranne VdA e, per certi aspetti, le province autonome di Trento e Bolzano) stanno facendo – o non facendo – dopo la riforma costituzionale, che è stata finora sostanzialmente ignorata nella sua portata potenzialmente “rivoluzionaria”, appare indispensabile una chiarificazione (la più tempestiva possibile) sui criteri di adeguamento e sui vincoli derivanti dal nuovo quadro del Titolo V, anche per evitare che si consolidino o si moltiplichino interventi legislativi che appaiono in evidente contraddizione con i nuovi principi generali della Repubblica delle autonomie (come nei casi già ricordati di interventi legislativi in materia di controlli).
4. Quali strumenti e procedure per realizzare le forme più ampie di autonomia degli enti locali (evitando le incertezze di una interpretazione che spesso finisce per piegare i principi di garanzia alla “legge del più forte”)
– A livello locale vi è la disponibilità di strumenti assai rafforzati, come sono gli statuti e i regolamenti di organizzazione, che possono consentire a ciascun ente locale di disegnare il proprio ordinamento e la propria struttura operativa, anche in materia di controlli interni e di forme di relazione con gli altri soggetti, fermi restando ovviamente i limiti generali stabiliti dalla lett. p dell’art. 117 II (cui si possono forse aggiungere alcuni altri limiti ricavabili da altre lettere dello stesso comma, a parte i principi generali sull’organizzazione pubblica).
– A livello regionale sussiste indubitabilmente uno spazio non trascurabile sia per iniziative di adeguamento degli statuti e delle norme di attuazione, sia per una autonoma revisione o integrazione delle leggi regionali in sintonia o in adeguamento ai nuovi principi riguardanti l’autonomia locale, fermi restando ovviamente i limiti che, da un lato, debbono essere ora considerati sussistenti, verso il basso, in materia di ordinamento e organizzazione interna degli enti locali, nonché, verso l’alto, in ordine alla determinazione riservata al legislatore statale delle funzioni fondamentali.
– A livello nazionale appare rilevante un doppio ordine di interventi che possono concorrere a realizzare, a diverso titolo, una condizione di autonomia degli enti locali ricompresi in regioni speciali comunque non inferiore a quella sancita dalle nuove norme costituzionali per le varie categorie di enti locali della Repubblica: da un lato si impongono urgenti revisioni degli statuti delle regioni speciali, in cui si provveda ai necessari adeguamenti e armonizzazioni (a parte il superamento e l’abrogazione implicita di talune norme statutarie dopo la l.c. 3/01, ad es. in materia di controlli); dall’altro appare senza dubbio opportuno, in attesa anche dei suddetti adeguamenti degli statuti e delle relative norme di attuazione, chiarificare la portata dei nuovi principi di autonomia in ordine agli enti locali in parola nell’ambito degli interventi legislativi in itinere volti alla prima attuazione della riforma costituzionale (v. ddl La Loggia, in particolare in ordine alla determinazione delle funzioni degli enti locali, ma anche per quanto concerne il nuovo scenario dei controlli esterni collaborativi della Corte dei conti).
– Va sottolineata comunque l’esigenza di adottare procedure concertate, valorizzando realmente anche gli organi “misti” e le sedi di concertazione (tipo Consiglio delle autonomie locali) già disponibili o tavoli finalizzati ad intese interistituzionali paritarie, improntate al principio della leale collaborazione, rafforzando nel contempo altri strumenti di dialogo “generale” già operanti (v. rafforzamento conferenza unificata e attuazione art. 11 l.c. 3/01), in attesa comunque che si arrivi (auspicabilmente) ad adeguare finalmente il sistema parlamentare al nuovo volto dello stato delle autonomie, con la previsione di una camera delle autonomie; in questo quadro va anche specificamente sottolineato che lo stesso adeguamento degli statuti delle regioni speciali e province autonome dovrebbe essere frutto di un processo il più possibile partecipato, in partnership (Ruggeri).
Conclusione
Il nodo da sciogliere (non solo) per gli enti locali delle regioni speciali è, in sostanza, quello di garantire (anzitutto) le autonomie più a rischio (o, se si vuole, più deboli, anche perché attualmente non dispongono di forme di garanzia ad hoc, quale l’accesso alla Corte costituzionale, previste invece in altri ordinamenti come Germania e Spagna e postulate, tra l’altro, in documenti normativi solenni, come la Carta europea dell’autonomia locale del 1985). Se si vuole prendere effettivamente sul serio l’opportunità offerta dalla riforma del Titolo V, le regioni speciali possono contribuire in modo significativo a questo obiettivo, a condizione di diventare realmente una sede di sperimentazione di più avanzate forme di autonomia locale, diventando in qualche modo il “traino” della trasformazione in senso autonomistico dell’intero sistema statuale.