Tavola rotonda “Comuni 2020: ridisegnare i rapporti con l’industria, la finanza e i cittadini”

15.10.2015

11 settembre 2015, LUISS Guido Carli, Roma

 

Introduzione a cura del Prof. Luciano Monti

 

Il tema della tavola rotonda che ho l’onore di introdurre oggi potrebbe apparire generico o pretestuoso. Generico in quanto, a una prima analisi superficiale, i rapporti tra il sistema industriale, quello creditizio e le dinamiche sociali sono riconducibili a un modello di sviluppo così ampio da essere giocoforza troppo astratto e semplificato. Pretestuoso perché non è certo possibile “ridisegnare” una così complessa rete di relazioni nello spazio di una mattinata.

Mi corre il dovere però di fugare subito questi dubbi. Nel corso dei lavori di questa settimana, svolti nel quadro del master universitario di II livello in Amministrazione e Governo del Territorio promosso dalla School of Government della LUISS Guido Carli e dedicati allo “sviluppo economico-sociale del territorio”, è apparso chiaro, da un lato, quanto sia oramai anacronistico andare alla ricerca di un “modello di sviluppo”.

Tutti i modelli via via elaborati non solo si sono dimostrati troppo semplificati e non in grado di prevedere le specificità territoriali (limite spaziale) né le contingenze o le opportunità (limite temporale), ma in ultima istanza fallaci nella loro capacità di lettura e di previsione di fenomeni di sviluppo (Garofoli G., 1999).

Dall’altro lato, l’attività di ridisegno non attiene dunque a nuovi ipotetici quanto inefficaci modelli, ma piuttosto, in termini positivi, induce a provare a concepire e promuovere nuovi rapporti tra gli attori locali. Una azione dunque non solo descrittiva ma positiva, nelle corde e nelle funzioni di coloro, che hanno partecipato ai lavori di questa settimana e/o sono presenti all’evento odierno, che hanno o avranno presto responsabilità di governo del territorio.

Ciò premesso occorre fare riferimento ad alcuni assunti che hanno orientato l’attività di studio sullo sviluppo economico e sociale del territorio.

Il primo assunto è il concetto di sviluppo, inteso come forza endogena proveniente dal territorio di riferimento. Territorio che dunque viene ora comunemente considerato un attore collettivo in grado di partecipare a dinamiche complesse come la competizione tra sistemi locali (la cosiddetta sfida “glocal”). Una accezione dunque ben diversa da quella di “valorizzazione del territorio”, spesso confuso con lo sviluppo, ma invece relativo soltanto al ricorso alle rappresentazioni storico-artistico culturali ambientali di un territorio.  La valorizzazione non è ovviamente un processo negativo, anzi, ma va considerato come un fattore di sviluppo territoriale, non il solo. Si pensi alle dotazioni materiali e immateriali di un territorio che in talune realtà sono proprio la precondizione per una qualsivoglia azione di valorizzazione del patrimonio locale.

Lo sviluppo territoriale, in quanto forza endogena dovrebbe essere infatti maggiormente inclusivo e dunque generare anche una maggiore distribuzione della ricchezza che un singolo fenomeno eterogeneo (insediamento industriale dall’estero, flussi turistici ecc.) potrebbe non assicurare.

Il secondo assunto preso in esame è quello della sostenibilità istituzionale, ovvero il rapporto tra le funzioni e le aspirazioni di un attore pubblico responsabile di un territorio e i mezzi economici e relazionali di cui dispone. In questo senso la discrasia tra obiettivi e mezzi appare di tutta evidenza nel nostro paese, che ancora oggi conta su oltre 8.000 comuni, con un incremento rispetto agli anni ‘50 di poche unità (erano 7.781 nel 1950, 8.094 nel 2012), mentre, nel medesimo periodo, in Inghilterra i comuni sono passati da 2.028 a 406 e in Germania da 24.272 a 12.104.

Questo induce, anzi, obbliga a considerare la via delle reti cooperative tra territori (Bolgherini S. e Messina P., 2014). Un approccio che è ampiamente sostenuto dall‘Unione europea e anzi presupposto per l’accesso ad alcune opportunità a gestione diretta della Commissione. Il ricorso alla compartecipazione intercomunale dovrebbe essere anche il presupposto per lo sviluppo di progetti efficaci finanziati nell’ambito della programmazione comunitaria indiretta, a titolarità ministeriale o regionale. Si pensi ai risultati anacronistici registrati nella vecchia programmazione 2007-2013 per la realizzazione delle piste ciclabili comunali, spesso non collegate tra loro.

Gli ostacoli all’affermarsi di questa mentalità nel nostro paese sono di varia natura e vanno rapidamente rimossi. In estrema sintesi, dette barriere possono essere ricondotte a retaggi storici (la tradizione della città murata dell’era comunale, la presenza dei “campanili”,  l’indefinito numero e ruolo delle proloco ecc.), a difficoltà di rappresentanza (legittimazione ad agire e a rappresentare il territorio di alcuni enti intermedi come le unioni di comuni, i Gruppi di Azione Locale ecc.) e culturali (poca dimestichezza degli amministratori locali nell’utilizzo degli strumenti di rete e tendenza  degli amministratori regionali e governativi a concepire la compartecipazione e la programmazione negoziata come un mero iter burocratico).

Il territorio dunque emerge ed è emerso anche nei lavori di questa settimana non come semplice variabile di un ipotetico modello, ma come il punto di partenza per concepire una qualsivoglia azione di governo che sia in grado di incidervi. Lo sforzo dunque si è concentrato sulla analisi delle specificità e delle differenze locali, facendo ricorso a strumenti di rilevazione variegati, spesso tra loro non comparabili ma in grado di poter fornire chiavi di lettura di quella determinata realtà locale. Ancora una volta non è tanto la scelta aprioristica di una determinata tassonomia di valori e relativi indicatori per rilevarli che interessa, quanto l’applicazione simultanea e contestualizzata di strumenti di rilevazione.

La varietà della responsabilità di governo dei partecipanti è stata in questo senso un grande valore aggiunto, perché ha permesso di sperimentare strumenti di lettura in realtà territoriali non solo geograficamente molto lontane tra loro, ma anche economicamente e socialmente differenti.

Con queste premesse e assunti sono state quindi prese e in esame le dinamiche con le quali le politiche economiche dei singoli Stati membri si devono ricondurre agli obiettivi delle politiche dell’Unione. Politiche nazionali e locali che sono considerate “precondizione” per l’attuazione di misure di sostegno finanziario dell’Unione, con l’impiego di varie risorse disponibili a seconda dell’oggetto degli stanziamenti e del paese o della regione interessati (fondi con finalità strutturale, cd. fondi strutturali; fondi della Banca Europea per gli Investimenti; altri fondi e strumenti finanziari).

La programmazione integrata è stata analizzata considerando le principali sfide che la attendono all’avvio della nuova programmazione che ci accompagnerà sino al 2020, cioè la rimozione degli ostacoli generati dalla interazione di due politiche a livello settoriale (per esempio. Housing, Transport) o territoriale; la promozione delle sinergie generate dalla interazione e creazione delle comunicazioni tra i vari stakeholders; la effettiva destinazione delle risorse nazionali (Fondo sviluppo e coesione 2020) agli obiettivi concordati in sede di programmazione integrata.

Ancora una volta non ci si è voluto ancorare ad un approccio predefinito  optando per il modello “planning school”, che prevede che le amministrazioni locali seguano un piano generale ben definito da una autorità superiore, o per il modello “learning school”, laddove la strategia non è pianificata ex ante e viene definita nel confronto tra gli stakeholders (Mitzberg, 1994). Sono state prese, invece, in considerazione quelle che sono considerate vere e proprie barriere al trasferimento di una azione di governo. Tra queste i fattori di contesto (legali, politici e culturali e dinamiche fra istituzioni formali e istituzioni informali), le barriere all’apprendimento (differenti modelli amministrativi di riferimento) e le barriere alla trasferibilità (mancanza di comunicazione, trasferimenti parziali di modelli complessi).

Coerentemente con l’approccio adottato, non si è presa posizione neppure sul modello di governo o governance (interazione tra stakeholders pubblici e privati) nella accezione di Hooghe e Marks (2001). La convinzione infatti è che partendo dalla centralità del territorio e dalle sue specificità nessuna via o strumento debba essere aprioristicamente escluso.

Infine, non poteva mancare l’esame temporale della contingenza, particolarmente significativa nella nostra realtà, ma che risulta essere l’effetto di scelte che spesso partono molto più da lontano di quanto si creda e da sedi che potremmo senza dubbio considerare esogene rispetto al territorio. E’ il tema della integrazione europea e del processo di convergenza delle aree meno sviluppate verso standard di benessere considerati “europei”.

L’originaria convinzione era che l’integrazione economica sarebbe stata raggiunta grazie alla rimozione degli ostacoli alla libera circolazione nel mercato unico. Successivamente, ci si è resi conto che i problemi di ritardo di sviluppo e le crisi di alcune delle aree della Comunità non si sarebbero risolti, ma anzi aggravati, in un mercato aperto alla concorrenza, ma soggetto a shock territoriali.

Si è fatta così strada la strategia volta a ridurre le principali cause che si frappongono alla convergenza verso una piena integrazione, che per loro natura vengono definite cause strutturali di ritardo di sviluppo.

Cause che impediscono la convergenza, cioè una crescita delle aree in ritardo di sviluppo maggiore rispetto alla media comunitaria e tale da recuperare il gap iniziale. Cause che spesso, se non rimosse, possono non solo precludere la crescita prevista, ma addirittura rallentarla a livelli inferiori di quella della media comunitaria. In tali ipotesi si assiste e si è assistito purtroppo ad un aumento del gap di crescita e al conseguente fenomeno di deriva.

Fino all’avvento della crisi nel 2008, le disparità tra economie regionali dell’UE erano in diminuzione (il coefficiente di variazione del PIL regionale pro capite era sceso del 10% tra il 2000 e il 2008). Nel 2000, il PIL medio pro capite nel 20% più sviluppato delle regioni era di circa 3,5 volte più alto di quello nel 20% meno sviluppato. Nel 2008, questa differenza era scesa a 2,8 volte. Questo cambiamento è principalmente dovuto alla maggiore rapidità con cui sono cresciute le regioni con il PIL più basso, avvicinandosi ai risultati delle regioni più prospere (processo noto come beta–convergenza). Tuttavia, la crisi ancora in atto ha interrotto questa tendenza poiché tra il 2008 e il 2011 le disparità regionali sono aumentate (il coefficiente di variazione è salito leggermente) .

Questa inversione di tendenza segnalata dalla deriva del PIL è tuttavia solo la punta dell’iceberg e nel corso della settimana la lettura dei tessuti territoriali locali, come si può immaginare, ha mostrato uno scenario assai più grave. Lo testimoniano i dati relativi ai NEET, che dimostrano come molte delle nostre città italiane sono da annoverare in quelle che vengono definite buchi neri per le nuove generazioni (Lee N. e Wright J., 2011) o quelli sulla restrizione del credito in particolare agli under 35.

Sono dunque queste le basi e le osservazioni che aprono il dibattito odierno e fanno da cornice ai contributi che mi accingo a introdurre e che sono relativi appunto alle relazioni tra la finanza e l’impresa in una dimensione territoriale (il prof. Giuseppe Di Taranto della LUISS), la centralità della scuola nella dimensione locale (la dott.ssa Annamaria Leuzzi, dirigente MIUR), l’importanza dell’approccio industriale sistemico (il dott. Paolo Marini di Unindustria), lo sviluppo intelligente del territorio (la dott.ssa Antonella Giulia Pizzaleo, dirigente della Regione Lazio) e il ruolo che sono chiamati a svolgere i sindaci (il dott. Fausto Servadio, Presidente di Anci Lazio).

Testimonianze e contributi questi importanti  per aiutarci ancora di più a leggere tra le pagine del libro che narra della storia, delle sfide odierne e delle prospettiva future delle nostre realtà locali che molti di voi, spesso senza saperlo, stanno scrivendo. Un libro scritto non solo per noi e per i nostri figli, ma anche per coloro che per scelta o per disperazione sceglieranno le nostre terre come loro casa, consapevoli che la dimensione locale trova una sua ragione d’essere solo e soltanto in un ambito globale.

Un auspicio quest’ultimo che voglio riservare ai nostri studenti ed ex studenti e in particolare a coloro che mi hanno aiutato a promuovere questa iniziativa (Europelab, l’associazione dei diplomati del laboratorio Cantieri d’Europa della LUISS), affinché perfezionando le loro conoscenze di europrogrammatori ed europrogettisti non costruiscano muri di cinta ma strade.

 

 

 

a.feola