Corte di Cassazione, sez. VI penale, sent. del 6 marzo 2017 n. 10875

29.10.2017

Corte di Cassazione, sez. VI penale, sent. del 6 marzo 2017 n. 10875:

l’attività di raccolta del risparmio postale costituisce servizio pubblico

 

La sentenza in epigrafe, in tema di qualificazione soggettiva a fini penali del dipendente di Poste Italiane S.p.a. che svolga attività di “bancoposta”, assume particolare rilevanza anche ai nostri fini, in quanto risolve in via preliminare l’annosa questione relativa alla natura giuridica dell’attività di raccolta del risparmio postale.

Infatti, i princìpi in base ai quali operare – ai fini penali – la qualificazione di un soggetto quale pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio sono attualmente ricavabili dall’art. 358 del codice penale, che definisce l’incaricato di un pubblico servizio come colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con un determinato ente pubblico. Dunque, come osserva lo stesso Collegio, l’attuale disposizione privilegia il criterio oggettivo-funzionale, eliminando ogni riferimento, contenuto invece nel precedente testo dell’art. 358 c.p.p., al rapporto d’impiego con lo Stato o altro ente pubblico.

Sulla nozione di servizio pubblico, il diritto penale ha quindi recepito il superamento della concezione soggettiva in favore di quella oggettiva, riconoscendo rilevanza unicamente all’oggettiva natura dell’attività svolta.

Tuttavia, proprio l’adozione di tale criterio ha dato origine ad interpretazioni contrastanti – anche nella giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione – circa la natura dell’attività di “bancoposta” svolta dagli uffici postali per la raccolta del risparmio.

Se l’orientamento più risalente e consolidato riconosce ai relativi addetti la qualifica di incaricati di pubblico servizio, con conseguente applicazione dello statuto della pubblica amministrazione (sez. VI, 8 marzo 2001, n. 20118; Id., 15 giugno 2004, n. 36007; Id., 21 giugno 2010, n. 33610), un più recente indirizzo giurisprudenziale ha invece affermato che «l’attività bancaria (“bancoposta”) esercitata da Poste Italiane s.p.a. (e prima dall’ente Poste) (…) non è “pubblico servizio”», classificandola dunque quale attività di tipo privato al pari di quella delle banche, per cui il dipendente ad essa impiegato non è né pubblico ufficiale né incaricato di pubblico servizio (sez. VI,  21 ottobre 2014, n. 10124; Id., 30 ottobre 2014, n. 18457).

A tal proposito, il Collegio degli Ermellini osserva che «entrambi gli orientamenti Giurisprudenziali (…) considerano le attività di bancoposta come una categoria omogenea, suscettibile in quanto tale di qualificazione unitaria a fini penali. Ciò ha condotto a qualificare tutte insieme le funzioni di bancoposta come aventi natura pubblicistica, ovvero privatistica, a prescindere da una compiuta analisi delle caratteristiche delle diverse attività, normativamente definite, svolte in tale ambito da Poste Italiane S.p.a.», mentre invece la raccolta del risparmio postale stricto sensu intesa si distingue dalle altre attività di “bancoposta” per caratteristiche proprie.

In realtà, a parere di chi scrive, già le pronunce del 2001 e del 2004 (per richiamo alla precedente) facevano riferimento alla «specifica attività inerente al risparmio postale», anche se poi in altri punti della parte motiva parevano effettivamente equiparare suddetta attività a quella più generica di “bancoposta”. Un rilievo più autonomo della stessa attività emerge invece dalla lettura della sentenza n. 33610 del 2010, mentre semmai la sua generale ricomprensione nell’attività di “bancoposta” è imputabile alle sentenze del 2014.

È tuttavia evidente che le due sentenze “gemelle” del 2014 (aventi peraltro in comune lo stesso giudice relatore) hanno indebitamente operato un’automatica equiparazione, non adeguatamente argomentata, tra l’attività di “bancoposta” e l’attività bancaria prima ancora che tra quella di risparmio postale e di “bancoposta”, in base all’equiparazione fatta dal d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144 (c.d. Regolamento recante norme sui servizi di bancoposta). In esse si è inoltre anche ritenuto che la detenzione di parte del capitale di Poste Italiane S.p.a. da parte della Cassa Depositi e Prestiti non implichi una gestione del capitale differente rispetto a quella di una banca comune, essendovi inoltre una netta separazione contabile. Da qui la conclusione sulla natura privatistica dell’attività di “bancoposta” (e quindi anche di risparmio postale), in base all’ormai ovvio presupposto della natura privatistica dell’attività bancaria.

La sentenza in commento ha invece l’indubbio pregio di aver offerto una ricostruzione puntuale, precisa e sistematica dell’evoluzione normativa e delle peculiarità intrinseche all’attività di risparmio postale che sono tali da renderla oggetto di una specifica disciplina pubblicistica, non fosse altro per il perdurante, diretto collegamento con le finalità di pubblico interesse perseguite in forma societaria da Cassa Depositi e Prestiti S.p.a., «consustanziale alla natura stessa del risparmio postale».

È dunque proprio il criterio oggettivo-funzionale, assieme ad una ricostruzione più puntuale degli indici normativi, che permette di cogliere la reale essenza dell’attività, da cui «traspare – al di là della natura privatistica degli strumenti societari e della comunanza di talune forme di disciplina e vigilanza con quelle proprie dei settori bancario e finanziario – la specifica connotazione pubblicistica della raccolta e dell’impiego del risparmio postale, in quanto per legge direttamente ed unicamente finalizzato al perseguimento di primari interessi pubblici».

Con tale sentenza la Suprema Corte ha dunque risolto, auspicabilmente una volta per tutte, la querelle dottrinale e giurisprudenziale in materia, valorizzando la natura di pubblico servizio dell’attività di raccolta del risparmio postale.

 

 

 

 

 

a cura di Tamara Favaro