“Il patrimonio artistico e culturale in Europa tra economia e difesa dei valori”

28.07.2016

Intervento di Luciano Monti[1] alla Summer School Giornate d’Europa del Centro Rinascimento

Aieta (CS), 27 luglio 2016

In Europa il settore culturale e creativo rappresenta il 4,2% del Pil ed è il terzo settore con più impiegati, dopo l’edilizia e il settore della ristorazione e alberghiero, con circa sette milioni di persone, il 3,3% della popolazione attiva. Inoltre, il settore ha mostrato una buona resilienza continuando a crescere anche durante la crisi economica. Il numero di posti di lavoro nel settore sono infatti cresciuti nel periodo 2000-2007 del 3,5% e hanno continuato a crescere dello 0,7% annuo tra il 2008 e il 2012, quando nel complesso l’economia perdeva lo 0,7% di posti di lavoro (ERNST & YOUNG, 2014).

Non vi sono dubbi, quindi, che l’Europa, con oltre un terzo del patrimonio artistico e culturale dell’umanità e sette musei (Louvre – FR, TATE Gallery – UK, Versailles – FR, British Museum – UK, National Gallery – UK, Colosseo – IT, National History – UK) che da soli attraggono annualmente circa quaranta milioni di visitatori, possa e debba poter contare su una robusta politica culturale non solo destinata alla conservazione del patrimonio, ma anche allo sviluppo della filiera produttiva nei settori che vi interagiscono e che producono nuova cultura. Ne emerge un quadro, anche in tempi di congiuntura negativa, di un comparto vitale e per certi versi in controtendenza.

Per quanto concerne l’Italia, per esempio, le prime stime effettuate hanno rilevato come il sotto settore della gestione del patrimonio artistico e culturale pesi per il 17% all’interno del macro settore cultura e imprese creative (SANTAGATA, 2008) generanti l’1,65% del PIL.

Limitandosi alla gestione del patrimonio storico artistico e culturale, alla fine del 2012 risultavano registrati 1.228 Enti o imprese. Questi ultimi rappresentano soltanto lo 0,3% del totale delle imprese del settore ma rappresentano la quota di imprese più dinamica, con un incremento in valore assoluto nel numero rispetto al 2012 di oltre il 18%. Emerge dunque un quadro, anche in tempi di congiuntura negativa, di un comparto vitale per certi versi in controtendenza.

Secondo il Rapporto di Symbola “Io sono cultura 2016”, al Sistema Produttivo Culturale e Creativo (industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive, produzioni creative-driven) si deve il 6,1% della ricchezza prodotta in Italia: 89,7 miliardi di euro. Il Sistema Produttivo Culturale dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia (Symbola 2016).

La rilevanza di questi fenomeni è stato tuttavia solo recentemente oggetto di studio e attenzione da parte degli economisti.

Invero, i primi tentativi di collegare tra loro lo sviluppo della società e lo sviluppo di arte e cultura sono da ricondurre a quello che è stato definito il materialismo culturale (WILLIAMS, 1958). Secondo questo approccio, sarebbero arte e cultura a influenzare lo sviluppo di una società e non il contrario.

L’economia della cultura è però una disciplina ancora più recente; la prima presa di coscienza che prezzo e denaro non fossero fattori di svilimento della cultura ma strumenti per promuoverla e nobilitarla come fertile terreno di sviluppo economico e sociale si posiziona a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso (BAUMOL e BOWEN, 1966).

L’evidente disinteresse da parte degli economisti non era tuttavia generato da una scarsa conoscenza dei fenomeni di produzione e conservazione dei beni culturali, bensì dalla convinzione che le dinamiche e le relazioni sviluppate in quest’ ambito non fossero riconducibili a un modello economico e dunque scientificamente misurabili. Non sorprende quindi che le principali teorie classiche, come quella del valore-lavoro, o quelle neoclassiche sulle scelte razionali non considerassero l’ambito della cultura e dei suoi prodotti creativi.

Solo recentemente si sono fatti passi importanti volti a definire i beni economici prodotti dalla cultura, i suoi attori e il mercato, per arrivare infine alle stime dell’impatto economico del patrimonio culturale in generale, oggetto di quest’approfondimento.

Un particolare ruolo l’hanno avuto anche gli economisti italiani, non solo per la grande rilevanza del patrimonio culturale presente sul nostro territorio e dunque la concentrazione degli investimenti disponibili nelle iniziative tese alla loro conservazione, ma anche per il particolare sistema istituzionale e amministrativo nazionale che spesso rende inattuabili modelli economici generati da rilievi empirici, effettuati in particolare nei paesi anglosassoni, dove il sistema amministrativo è assai più fluido (SANTAGATA, SEGRE, TRIMARCHI, 2007).

Recenti studi dimostrano che la tutela e conservazione del patrimonio contribuisce in maniera importante all’economia di un paese. Per esempio, secondo la European Construction Industry Federation, nel 2013 il restauro e mantenimento del patrimonio culturale consisteva nel 27,5% del valore dell’industria europea delle costruzioni. Inoltre le risorse investite nel patrimonio culturale garantiscono una manutenzione continuativa del patrimonio stesso rendendo meno frequenti gli interventi di manutenzione straordinaria, normalmente molto più onerosi (GREFFE, 1999). In Francia (KANCEL et al., 2013) il patrimonio genererebbe 8,1 miliardi di euro, e nel Regno Unito altri studi hanno dimostrato che il mantenimento del patrimonio storico registrerebbe un ritorno negli investimenti: ogni sterlina investita determina fino a 1,60 sterline di indotto (HERITAGE COUNTS, 2010).

Secondo la Commissione europea (COMMISSIONE EUROPEA, 2014) inoltre vi sarebbe una stretta associazione tra patrimonio culturale e industrie culturali e creative. Infatti, molto spesso gli edifici storici rappresentano il luogo ideale per lo sviluppo di imprese culturali e creative.

Il Report dell’English Heritage “Regeneration and the Historic Environment” (ENGLISH HERITAGE, 2005) elenca i motivi per cui la rigenerazione di un bene culturale può rappresentare un fattore di sviluppo sostenibile. Tra questi il fatto che il restauro e rigenerazione di un edificio storico crea lavoro e contribuisce all’economia locale, ma, a differenza di altri tipi di costruzioni, produce anche un ambiente attrattivo per le altre attività economiche, non solo quelle dell’industria turistica, ma per esempio quelle dei trasporti locali. Inoltre, il mantenimento di edifici storici contribuisce al miglioramento delle qualità della vita della zona e il senso di appartenenza.

Infine, gli stessi edifici storici rappresentano luoghi ideali per la produzione di nuova cultura o anche semplicemente per lo svolgimento di attività culturali in senso lato. Per quanto riguarda invece la localizzazione del patrimonio culturale in zone rurali, la connessione si manifesta anche con la tutela del paesaggio e dell’ambiente in generale.

Rimandando peraltro agli studi scientifici espressamente dedicati a questi temi, per una migliore comprensione del fenomeno che voglio qui approfondire è opportuno dare conto di alcuni sviluppi teorici volti a meglio definire la cosiddetta economia della cultura. Senza parametri precisi in merito ai principali attori e prodotti di questo comparto non sarebbe, infatti, possibile immaginare una valutazione dell’impatto economico di incentivi fiscali in quello che è stato anche definito il circuito di scambio culturale e artistico (TRIMARCHI, 2002) e i relativi ritorni in termini di gettito fiscale.

In merito alla produzione dei beni in tale ambito, la filiera della produzione delle opere d’arte può essere articolata nelle seguenti fasi: a) la selezione degli artisti; b) la creazione delle idee; c) la produzione, spesso coinvolgente più artisti (si pensi ad un’opera teatrale o musicale) e luoghi (con la nascita dei distretti culturali); d) la distribuzione dell’opera d’arte; e) il consumo e la fruizione dell’opera d’arte.

Le difficoltà per rilevare tali processi sono tuttavia tante, soprattutto quando si tratta di identificare degli indicatori capaci di misurare i flussi economici e i suoi attori. Sul versante del consumo (cioè la fruizione di un prodotto culturale o creativo), si pensi alle difficoltà di armonizzazione dei dati esistenti sulla partecipazione alle attività di tipo culturale. Anche concentrandosi su una definizione comune di “partecipazione alle attività di tipo culturale” e raccogliendo e valutando le fonti disponibili di dati sulla partecipazione alle attività culturali nei paesi europei, l’esame non è semplice.

Un altro problema è quello di determinare le professioni e i bacini di impiego coinvolti dalle filiere culturali, che non vedono attive solo le Industrie creative e culturali (ICC), ma anche istituzioni, organizzazioni, artigiani e artisti (EUROSTAT, 2000). Come rileva l’Istituto Statistico Italiano, “Questo tipo di approccio offre la possibilità di confrontare l’occupazione e altri indicatori economici con altri settori o gruppi di imprese. Studiare l’occupazione nel settore culturale significa contare e identificare le persone impiegate in professioni in questo campo (o i posti che offrono professioni in campo culturale), anche se queste persone sono impiegate da imprese che appartengono ad altri settori” (ISTAT, 2000). Si tratta infatti di un mercato del lavoro improntato da forte dinamismo (MARCHESI, 2004).

Ne consegue che è possibile quantomeno enucleare tre tipologie di “professioni” nel macro settore culturale quali: a) le professioni relative alla produzione di beni e servizi culturali; b) le professioni caratterizzate da un certo contenuto creativo; c) le professioni il cui contributo è essenziale per la definizione ed il contenuto dei prodotti culturali. Ancora una volta le attività di conservazione del patrimonio storico, artistico e culturale possono ricadere senz’altro nella categoria da ultimo citata, ma anche le precedenti due non devono essere escluse a priori e anzi entrano in gioco quando il bene storico svolge la funzione di incubatore o di piattaforma per una performance artistica o una fruizione turistica.

La rilevanza dei fenomeni di produzione artistica in senso lato e più specificamente culturale e creativa è determinata anche dalla sempre maggiore consapevolezza dell’importanza del mercato della cultura, sostenuto da una serie di fattori venutisi a creare in questi ultimi decenni.

Il primo di questi fattori è quello delle innovazioni tecnologiche che hanno aperto la strada a strumenti di comunicazione e target di fruitori sino a poco fa assolutamente inimmaginabili in termini di numero e di tipologia. Il mercato della cultura è stato dunque sospinto dalla sempre maggiore rilevanza dell’economia della conoscenza e della crescita intelligente, asse portante, tra l’altro, dell’agenda di Europa 2020. Si pensi, per fare un esempio tra tutti, allo smart museum, al museo diffuso e al talent garden.

A questo mainstream si è aggiunto anche il processo di istruzione della popolazione, che ha abilitato un sempre maggiore numero di cittadini alla fruizione di prodotti culturali in precedenza riservati a pochi. Cittadini che per numero e eterogeneità richiedono operazioni di mercato (e tutele) sempre più complesse. “Produrre cultura è dunque un’attività economica di frontiera nell’epoca della società della conoscenza e dei mercati globali ed è sempre più complessa, perché si deve adattare a beni e servizi molto diversi per contenuti e tecnologie, nonché a fruitori assolutamente eterogenei” (SANTAGATA, SEGRE, TRIMARCHI, 2007).

Credo che questi spunti da soli bastino per confermare l’esistenza di stretti legami tra sviluppo economico e patrimonio artistico e culturale. Se dunque vi è più di un collegamento tra la cultura e lo sviluppo economico e questo collegamento sia evidente allorquando si fa riferimento al patrimonio artistico e culturale, ora si deve verificare se e come questo collegamento possa o meno generare impatti positivi sull’economia del territorio e cioè impatti sullo sviluppo locale

Uno dei metodi per misurare il valore d’uso e il valore del non-uso di un bene culturale consiste nell’accertare la disponibilità a riconoscere un corrispettivo per la fruizione di detto bene. La possibilità di immaginare un servizio con corrispettivo per la fruizione permette da un lato di determinare la sostenibilità finanziaria di un intervento incentivato di tutela e valorizzazione del bene, ma soprattutto apre la strada al calcolo della fiscalità, basato sul gettito diretto derivante dalla imposizione del predetto corrispettivo.

Questo tipo di ricerca è abbastanza complicata e necessita di metodi di analisi e metodologie che non appartengono agli strumenti generalmente usati nelle indagini di mercato. Il metodo più frequentemente utilizzato è quello detto della contingent valuation (POMMEREHNE, 1987; MITCHELL e CARSON, 1989; HANEMANN, 1994) che mira a determinare la disponibilità a pagare (willingness to pay) per fruire di un bene culturale. Questa metodologia può vantare già molte applicazioni come la Cattedrale di Nidaros a Trondheim in Norvegia (NAVRUD et al., 1992), il Castello di Venaria Reale, la Certosa di Persio, il Sacro Monte di Varallo (MAGGI, 1994), alcuni edifici storici a Neuchâtel in Svizzera (GROSCLAUDE e SOGUEL, 1994), la Cattedrale di Durham in Inghilterra (WILLIS, 1994), il “Musée de la civilisation” in Quebec (MARTIN, 1994), il Royal Theatre a Copenhagen (HANSEN, 1997), la Medina di Fez (CARSON et al., 1997), il Museo di Arte Contemporanea del Castello di Rivoli (Torino) (SCARPA et al., 1998), un edificio storico a St. Genevieve nel Missouri (WHITEHEAD, CHAMBERS e CHAMBERS, 1998), il beneficio derivante dal restauro del Colon Theatre a Buenos Aires (ROCHE, 1998). Questi studi tengono conto anche dei costi di viaggio dei visitatori e del fattore tempo necessario per raggiungere la meta e per visitare il bene.

Su questa scia, uno studio condotto da Santagata e Signorello (SANTAGATA e SIGNORELLO, 2000) mira a valutare l’efficacia di una politica culturale locale, come quella di Napoli Musei Aperti. Relativamente a quest’ultima ricerca tuttavia il risultato è che il 48% degli intervistati afferma tuttavia di non essere disposto a pagare per seguire il programma.

Questo risultato ha condotto gli autori a interrogarsi su quale fosse il metodo di gestione più efficace per i beni culturali, mettendo a confronto quello privato, quello pubblico e quello che potremmo definire comune, da loro chiamato “Collective Ethic Cooperation”, che risulta essere infatti il più efficace.

Interessante è anche il contributo di Marilena Vecco intitolato “Economie du patrimoine monumental” (VECCO, 2007), in cui l’autrice analizza il ritorno economico derivante da investimenti fatti sul patrimonio culturale attraverso due casi come quello della “Scuola Larga di San Marco” e dell’utilizzo delle ville veneziane. L’autrice mette in luce come il patrimonio culturale possa portare benefici allo sviluppo economico sostenibile soprattutto a livello locale.

In uno studio condotto da Hervas-Oliver et al. (HERVAS-OLIVER et al., 2011) sono stati analizzati i distretti creativi in 250 regioni in ventiquattro Paesi europei ed è stato dimostrato che l’aumento dell’1% di industrie creative è correlato con un aumento dello 0,6% nel PIL pro capite.

Questi studi a vario titolo dunque dimostrano come la fruizione di determinati beni, se adeguatamente proposta (riducendo costi inutili come attese o mezzi di trasporto troppo onerosi), possa generare benefici e introiti rilevabili e dunque imponibili.

Interessante è però ora cercare di capire, o meglio di quantificare il “potenziale” mercato della fruizione del patrimonio artistico culturale privato.

Allo stato dell’arte non vi sono dati e studi specifici, tuttavia alcuni dati macro possono aiutarci quantomeno a dimensionare il fenomeno e a prevederne gli sviluppi.

Il passo successivo è quello ora di verificare se le attività economiche attinenti alla gestione e valorizzazione del patrimonio storico artistico e culturale possono ripercuotersi positivamente su altre attività e quindi generare altri benefici fiscalmente imponibili. In questo ambito entrano in gioco due fattori: l’effetto moltiplicatore insito nella filiera di produzione culturale e il fenomeno attrattivo di determinati beni culturali posizionati in realtà locali.

Il punto di partenza del moltiplicatore è che a un iniziale incremento di denaro investito fa seguito un aumento più che proporzionale del valore aggiunto delle attività economiche di produzione di bene e servizi (cd. esternalità culturali). Sotto questo filone di studi è sicuramente utile fare riferimento al concetto di capitale culturale sviluppato da Throsby (2011), il cui contribuito allo studio dell’impatto economico della cultura rappresenta uno dei maggiori esempi a livello globale, e grazie al quale è possibile guardare al patrimonio culturale anche in termini economici. Infatti, per capitale culturale si intende lo stock di valore culturale incorporato in un bene o in un evento che produce un valore culturale che può essere materiale o immateriale. Questo stock a sua volta produce un flusso di beni e servizi (anch’essi con valore sia culturale che economico) che possono essere direttamente consumati e/o combinati con altri input per produrre ulteriore capitale culturale e ulteriori beni e servizi. Questo consente il passaggio concettuale dalla tutela e conservazione del patrimonio culturale ad una sua valorizzazione. Infatti, il patrimonio genera come detto prima, delle esternalità culturali (connesse alla sfera educativa, comunicativa ecc.) e non culturali (legate al contesto sociale – identità e coesione – e a quello più propriamente economico produttivo – turismo, settore immobiliare, imprenditoria culturale). Nel campo culturale questo si misura nell’impatto primario e nell’impatto secondario. Per impatto primario si intende il valore diretto e quantificabile prodotto nell’economia dall’investimento nel settore culturale, come l’aumento dei posti di lavoro, l’aumento delle transazioni ecc. Per impatto secondario si intende l’impatto indiretto ma quantificabile prodotto da investimenti nella cultura. Si tratta principalmente degli effetti nell’aumento del consumo in settori strettamente connessi con quello culturale, come i già ricordati settori del turismo e dei trasporti. Vi sono studi che dimostrano (SILBERBERG, 1995) come gli investimenti pubblici in cultura generino come impatto diretto un innalzamento del livello qualitativo dell’offerta culturale; quest’effetto è rinforzato dagli stimoli portati da un aumentato numero di visitatori e dall’incremento delle relazioni con l’esterno. Sullo stesso filone Carl Koboldt (1997) parla delle esternalità derivanti dall’uso del patrimonio culturale e distingue tra effetti esterni di produzione (production externalities), come ad esempio turismo, occupazione, sviluppo locale, ed effetti esterni di consumo (consumption externalities), come identità nazionale, educazione, ricerca ecc.

Numerose le analisi anche per determinare il valore del moltiplicatore (HENG et al., 2003; KIASIA, 2009), come quella condotta per stimare il moltiplicatore delle arti a New York a fronte di un investimento pubblico di 350 milioni di dollari (Port Authority of New York and New Jersey, 1993), ancorché vi siano perplessità circa l’utilizzo del modello del moltiplicatore a livello locale (LISTOKIN et al., 2010). Infatti, molto spesso a livello locale mancano i dati e per questo è necessario raccoglierli tramite indagini sul campo. Questo metodo crea dei problemi al momento della comparazione degli studi e molto spesso presenta errori e incongruenze (REEVES, 2002; EVERITT, 2009). Tuttavia, se il fine non è comparatistico, il ricorso al metodo del moltiplicatore per valutare l’impatto di un intervento nel settore della tutela del patrimonio artistico e culturale privato è da considerarsi particolarmente indicato, in quanto può essere agevolmente adattato alle singole realtà locali prese in considerazione e permette di stimare i flussi di denaro generatisi tra settori differenti e di conseguenza anche il relativo gettito.

Secondo le stime riportate nel citato Rapporto “Io sono cultura” (UNIONCAMERE-SYMBOLA, 2016) la cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,8: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,7 miliardi, quindi, ne “stimolano” altri 160,1, per arrivare a quei 249,8 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 17% del valore aggiunto nazionale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano

L’attrattività culturale di un determinato bene, invece, sostiene lo sviluppo economico dell’area adiacente e il proliferare di altre attività economiche e sociali non necessariamente connesse alla fruizione di quel bene. Possono essere accertati impatti economici di breve periodo connessi con la presenza sul territorio di industrie culturali e creative, per via della capacità di attrazione di turisti e degli stessi residenti (BILLE e SCHULZE, 2006).

L’approccio delle “economies of agglomeration” (HEILBRUN e GRAY, 2004) ha dimostrato l’impatto economico di lungo periodo delle industrie culturali e creative, dato dalle loro capacità di creare un ambiente favorevole allo sviluppo economico richiamando persone, imprese e investimenti. La concentrazione di servizi culturali e creativi, infatti, rappresenta un fattore di attrazione per altre industrie che possono utilizzare il capitale creativo e i servizi e prodotti specializzati delle industrie culturali. Inoltre, la presenza di patrimonio culturale in un territorio diventa un elemento di marketing territoriale, non solo nei confronti dei flussi turistici per la potenziata immagine del luogo, ma anche nei confronti dei residenti attuali e potenziali e ciò per effetto delle nuove facilities che spesso sorgono per agevolare la fruizione del patrimonio culturale (BIANCHINI e PARKINSON, 1993). Se dunque le condizioni, il substrato per una valorizzazione del patrimonio artistico e culturale italiano sono assolutamente rilevanti, come ha recentemente sottolineato uno studio di Confindustria (CONFINDUSTRIA, 2013), la scarsa partecipazione dei cittadini e la debolezza relativa del nucleo artistico-culturale e delle industrie culturali italiani fanno sì che il potenziale economico della cultura resti tuttavia parzialmente inespresso. Ciò è da attribuire all’alleanza perversa fra il predominio di intenti meramente conservativi del patrimonio artistico e la logica burocratica che caratterizza la gestione pubblica del patrimonio artistico e condiziona la gestione di quella privata. Alleanza che ha trovato terreno fertile nel cosiddetto paradosso dell’abbondanza, dovuto al patrimonio artistico più importante del mondo, nella concezione passiva del rapporto fra domanda e offerta di cultura, nella poca attenzione a collegare saldamente i significati delle produzioni correnti con la tradizione culturale e nella malcelata diffidenza nei confronti del patrimonio artistico e culturale dei privati.

Ecco perché è importante monitorare l’indice di attrattività culturale, un indice determinato utilizzando i dati disponibili in tempo reale da Google Trend, che rilevano la frequenza di ricerche Google che, per ciascun paese, mettono in relazione lo stesso con parole chiave riconducibili a diciotto indicatori come arte, letteratura, innovazione, cultura, design, cinema, teatro ecc.

Il calo dell’indice di attrattività culturale “rivela che la disattenzione all’importanza di questa sorgente non è un male solo italiano. Ma è tuttavia significativo che l’Italia, che pure, fra i cinque maggiori Paesi europei, ha di gran lunga il più importante patrimonio artistico, presenta il livello più basso dell’indice” (Stati Generali della Cultura, 2013). Le rilevazioni effettuate con Google Trend evidenziano come in Europa solo l’attrattività del sistema culturale/creativo inglese abbia retto alla recessione. L’Italia ha una posizione particolarmente critica, in quanto il declino dell’attrattività è costante e indipendente dalla recessione. Fatto 100 il PIL e il livello di attrattività del nostro Paese nel 2004, nel 2013 i due indicatori si trovavano rispettivamente a poco meno di 95 e a poco meno di 90, con una deriva dunque dell’attrattività di circa 5 punti (Stati Generali della Cultura, 2013).

Rilevante, tuttavia, ai nostri fini è anche l’impatto della cultura sull’occupazione e dunque sul versante contributivo. Il restauro di palazzi, strade o altri elementi architettonici con valore storico e/o artistico è invero un’attività labour intensive e per questo motivo ad alto valore occupazionale. Secondo l’ILO, tenuto conto dello stesso livello di investimento nel settore edile, l’utilizzo di tecnologie basate sul lavoro può creare tra le 2 e le 4 volte più occupazione. Inoltre l’utilizzo di metodi labour-intensive aiuta le piccole e medie imprese e diminuisce i costi in maniera variabile dal 10% al 30% (PARLAMENTO EUROPEO, 2009).

Un aspetto molto interessante nell’indagine sulla misurazione dell’impatto della cultura sullo sviluppo economico è il potenziale occupazionale del settore (LEON e GALLI, 2004; BODO e PACE, 2004).

Il focus in questo caso non è strettamente legato al valore economico di un bene culturale, ma viene tenuto in conto qual è il valore economico in termini di capitale umano prodotto dalla cultura. Stiamo assistendo sempre di più a quella che è stata definita la “marketisation of culture and the culturalisation of the market” (ELLMEIER, 2003), intendendo definire la sempre più stretta relazione tra due mondi per lungo tempo visti come separati e non comunicanti, dove la cultura diventa sempre di più una questione commerciale e l’economia è sempre più influenzata dalla cultura. In una società basata sulla conoscenza si stanno sviluppando nuove forme di lavoro per il momento non ancora perfettamente definite e riconosciute e una nuova classe sociale chiamata la creative class (FLORIDA, 2002).

La classe creativa diventerebbe così il nuovo fattore di sviluppo economico permettendo di sviluppare un ambiente caratterizzato da tolleranza, tecnologia e talenti. Sarebbero proprio questi tre elementi a rappresentare il fattore decisivo per la crescita economica. Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti su un campione di 219 regioni (FLORIDA, 2002), ci sarebbe una correlazione positiva tra la presenza di tecnologia, tolleranza e talenti, definiti come le tre T, e il tasso di occupazione e del reddito.

Il settore culturale produce, infine, anche degli effetti non-economici ma che devono essere tenuti in debito conto nel momento in cui ci si appresta a delineare degli interventi pubblici a favore di questo settore. Per esempio la cultura ha impatto in termini di coesione sociale e integrazione dei gruppi più marginali (CONSIGLIO EUROPEO, 1998; MATARASSO, 1997); nella creazione di un nuovo sistema di valori (INGELHART, 2000); nella formazione di nuovi talenti ed eccellenze (THROSBY, 2001; UN, 2010); nello sviluppo delle diversità culturali (UNESCO, 2005; HERRERA, 2002; THROSBY, 2001); ma anche nella creazione di condizioni favorevoli alla creatività e all’innovazione (ABS, 2001; COX, 2005; POTTS e CUNNINGHAM, 2008; BAKHSHI et al., 2008). Nella stessa direzione si collocano coloro che affermano che la capacità creativa e culturale dell’Italia è precondizione allo sviluppo e all’innovazione in tutti gli altri campi del sapere e della tecnica (CALIANDRO e SACCO, 2011). Per dimostrare quest’ultimo assunto, si procede ad una analisi socio-economica volta a valutare l’impatto che lo sviluppo ha in termini sociali e di benessere su una comunità. L’analisi si basa su una ricerca di tipo qualitativo e quantitativo; i fattori maggiormente tenuti in conto sono la demografia, le abitazioni, il lavoro, il reddito, i servizi, il mercato.

Questa analisi è stata utilizzata per misurare l’impatto di politiche fiscali statali a favore dell’autoimpiego degli artisti,’impatto delle sponsorizzazioni private e la determinazione della forza lavoro impiegata nel settore culturale (COMPENDIUM, 2015).

Si comprende ora come ricondurre la politica culturale alla sola politica della conservazione di determinati beni culturali (normalmente prodotti nel passato e detenuti dal demanio, come tali più facilmente riconoscibili e classificabili) sia assolutamente riduttivo.

A fianco quindi della politica di conservazione dei beni culturali, sino ad oggi prevalente, si affacciano dunque nuove politiche che assieme concorrono a definire quella che dovrebbe essere la Politics culturale, che sostiene il sistema economico nel suo complesso, lo sviluppo territoriale e il rilancio dell’occupazione.

La politica della conservazione (e dunque gli strumenti finanziari ad essa connessi) quindi non finisce più per andare a discapito, quasi in contrapposizione, di quella della produzione culturale, ma si compenetra con quest’ultima.

Venendo ora agli strumenti della politica economica per la cultura, anche qui il fermarsi ai soli investimenti per la conservazione del patrimonio culturale pubblico sarebbe riduttivo, dovendo invece considerare anche la fiscalità e i suoi incentivi sulla conservazione e valorizzazione di quello privato.  Non spetta naturalmente a me tracciare le linee di un sistema di incentivo volto a rilanciare e valorizzare il patrimonio storico, artistico e culturale detenuto dai privati, ma credo che le considerazioni e i richiami sopra svolti abbiano dimostrato come sia difficile ma non impossibile stimare i ritorni di una politica fiscale in tal senso e che fiscalità, finanza, e incentivi siano strettamente interconnessi e non possono prescindere dal contesto europeo nel quale si propongono di intervenire (KEA, 2010).

In altre parole, sono convinto che sia opportuno confrontarsi sull’impatto economico di una politica di incentivi, concentrandosi sul gettito addizionale che la stessa potrebbe generare nel breve-medio periodo sulle attività interessate e su quelle indotte. In un secondo momento credo si possa addirittura stimare un extra gettito derivante dall’incremento delle attività nel lungo periodo in una terminata zona, laddove il fenomeno dell’attrattore sia più significativo, in assenza di altre alternative in loco all’offerta turistico/culturale.

Ancora una volta la via è tracciata dall’Unione Europea. Il Consiglio dell’UE chiama gli stati membri e la Commissione a mobilitare le risorse disponibili per supportare, rinforzare e promuovere il patrimonio culturale attraverso un approccio olistico e integrato, tenendo in considerazione i suoi aspetti economici, sociali, ambientali e scientifici (CONSIGLIO EUROPEO, 2014).

La Commissione afferma che l’eredità culturale sia una risorsa da condividere e un bene comune. Come tutti gli altri beni di questo tipo, tuttavia, esso può essere vulnerabile all’eccesso di utilizzo e al sottofinanziamento, con il rischio di abbandono, decadimento e in taluni casi di oblio. È dunque nostra comune responsabilità preoccuparci dell’eredità culturale (COMMISSIONE EUROPEA, 2014).

Un passo indietro ora, per meglio cogliere la genesi della attuale politica europea per la cultura.

Con l’approvazione del Trattato di Maastricht nel 1992, l’art. 128 ha attribuito all’UE alcune competenze in materia culturale. Prima di questo, le attività dell’UE in ambito culturale erano concentrare in una serie di piccoli progetti, tra cui il programma sul settore dell’audiovisivo, progetti editoriali, networking tra organizzazioni culturali e scambi culturali, armonizzazione nei controlli per l’esportazione dei prodotti culturali e qualche progetto per la conservazione del patrimonio. Dal 1992, la cultura diventa parte integrante delle politiche europee nelle quali l’«Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in tali settori», salvaguardando quindi la sovranità nazionale in materia culturale (Commissione europea, 1992). In seguito, la Commissione europea, con la comunicazione New prospects for Community cultural action, ha definito nel dettaglio le nuove competenze complementari dell’UE (Commissione europea, 1992). Con l’approvazione da parte del Consiglio dell’Unione Europea delle linee guida per le politiche in campo culturale, sono stati avviati una serie di iniziative e progetti per sostenere la cooperazione culturale a livello internazionale (Consiglio europeo, 1992). In particolare, in base all’art. 167(1) TFUE, «l’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel 164 5. Crescita intelligente rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune».

L’azione dell’UE si svolge nelle aree specificate nell’art 167(2) del TFUE e mira ad incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri e, se necessario, ad appoggiare ed integrarne l’attività. Le aree di interesse sono il miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei; la conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea; gli scambi culturali non commerciali; la creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo.

Gli strumenti finanziari che possono essere utilizzati sono incentivi, adottati secondo il processo legislativo ordinario, ossia attraverso il processo decisionale basato sulla votazione a maggioranza qualificata ovvero attraverso l’adozione di raccomandazioni (art. 167(5) TFUE). La competenza complementare in ambito culturale e il rispetto dei principi di sussidiarietà e diversità culturale riconosciuti a livello europeo molto spesso collidono con la competenza esclusiva, riconosciuta sin dal 1975, nella politica commerciale. Ne consegue direttamente l’applicazione del principio dell’eccezione culturale negli accordi bilaterali dell’UE. Vedi per esempio nel negoziato TTIP (Parlamento europeo, 2015). Il libero commercio può facilitare la diffusione delle culture e l’accesso a diversi prodotti e servizi culturali, fornendo così un importante contributo al dialogo culturale e al ravvicinamento tra i popoli. Nonostante questo, porta con sé anche dei rischi, soprattutto per le culture non dominanti, e può portare all’eliminazione di una vera scelta culturale (Psychogiopoulou, 2014). In questo ambito l’UE ha infatti bisogno di fare un esercizio di mediazione tra la strategia di liberalizzazione del commercio che avviene nell’ambito del Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e la tutela delle prerogative culturali dei paesi membri (MONTI, 2016).

Gli strumenti che l’Unione Europea ha messo in campo per la programmazione 2014- 2020 si collocano in un contesto europeo caratterizzato da uno spazio culturale frammentato per lingue e identità, per insufficiente mobilità degli operatori, degli artisti e delle opere e per dimensioni dei mercati soprattutto di fronte alla globalizzazione, e quindi all’esigenza di una maggiore competitività in ambito mondiale. Inoltre, il fenomeno della digitalizzazione, che sta trasformando le catene del valore e può rappresentare un veicolo di ampliamento dell’accesso alla cultura per i cittadini e di nuove modalità di riconoscimento della remunerazione dell’opera, si scontra con la mancanza di dati armonizzati sul settore e un immenso patrimonio archivistico e librario ancora in forma cartacea. Infine, una sfida trans-settoriale, ma che coinvolge anche le PMI del settore culturale e creativo, nell’accedere al credito (MONTI, 2016).

Nella nuova programmazione, le politiche culturali trovano spazio nei programmi a gestione diretta della Commissione europea, che ha attribuito al programma Europa Creativa l’importo di 1,462 miliardi di euro, inferiore a 1,8 miliardi inizialmente previsti, ma in crescita del 9% rispetto al settennio precedente.

Relativamente invece alla gestione decentrata delle risorse economiche europee, il PON Cultura e Sviluppo ha l’obiettivo di valorizzazione degli asset culturali (attrattori) di rilevanza strategica nazionale nelle aree di attrazione ricadenti nelle cinque regioni del Sud in ritardo di sviluppo (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia), precipuamente nell’ottica della loro tutela e salvaguardia, attraverso interventi di conservazione e protezione del patrimonio culturale, cui si affiancano azioni di promozione e sviluppo dei servizi e delle attività correlate alla sua fruizione, anche attraverso il sostegno delle imprese della filiera culturale che operano in tali aree, volendo promuovere sviluppo economico e competitività dei territori coinvolti. Il PON prevede una governance a filiera corta e diretta, che vede il MiBACT (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) autorità di gestione del programma con la responsabilità della sua gestione. Il PON Cultura e Sviluppo supera il tipico approccio fondato sul binomio “conservazione – fruizione” – tradizionalmente al centro dell’azione dell’amministrazione e della stessa strategia di valorizzazione dei Grandi Attrattori Culturali che ha informato gli ultimi periodi di programmazione – aprendo alla funzione di “produzione/attivazione culturale”, intesa come capacità di generare ambienti favorevoli all’emersione e al trasferimento di innovazione e quindi di produrre nel tempo cambiamenti strutturali. Il budget complessivo è di 490,9 milioni di euro, di cui 368,2 a valere sui fondi strutturali europei (FESR) e 122,7 di cofinanziamento nazionale.

In conclusione dunque vi sono ora tutte le condizioni, economiche, sociali, giuridiche e finanziarie affinché il grande patrimonio culturale italiano possa davvero essere considerato un “cavallo di battaglia” per la ripresa non solo delle aree più avanzate del nostro paese ma anche di quelle più periferiche.

A livello europeo invece, uno strumento di dialogo con i paesi vicini, di comprensione e, alla luce dell’emergente terrorismo “in casa”, anche di integrazione culturale.

[1] Professore di Politiche dell’Unione Europea alla LUISS Guido Carli (Roma), coordinatore dell’Osservatorio economico-internazionale della Fondazione Bruno Visentini (Roma), membro del Consiglio di Presidenza dell’Associazione Dimore Storiche Italiane (ADSI)

di Luciano Monti