Quale regionalismo dalla riforma costituzionale?, LUISS Guido Carli, 9 ottobre 2015

20.01.2016

Il seminario ha rappresentato un’occasione di riflessione sulla “direzione” del regionalismo italiano, a partire dalla presentazione del volume “Le materie di competenza regionale. Commentario” (curato da cura di G. Guzzetta, F. S. Marini, D. Morana), sia in riferimento alla Riforma del Titolo V del 2001, sia in riferimento alla Riforma costituzionale attualmente in discussione alle Camere.

Ha introdotto e moderato gli interventi degli ospiti Gian Candido De Martin, Presidente del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”.

Alla tavola rotonda sono poi intervenuti Riccardo Carpino, Prefetto; Marcello Cecchetti, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico – Università di Sassari; Guido Meloni, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico – Università del Molise e Luiss; Gino Scaccia, professore ordinario di Istituzioni di diritto Pubblico – Università di Teramo e Luiss e ha concluso l’incontro Antonio D’Atena, professore emerito di Diritto costituzionale – Università di Roma “Tor Vergata”.

La tavola rotonda si è aperta con i saluti del prof. De Martin agli studenti del Master in Amministrazione e Governo del Territorio della LUISS e ai colleghi, ringraziandoli per la partecipazione al seminario. Ha poi mosso i propri complimenti agli autori del volume “Le materie di competenza regionale”, tutti e tre presenti durante la mattinata, sottolineando tra gli aspetti positivi l’agilità di lettura del testo, che prevede un indice di circa 40 materie di competenza regionale alla luce delle dinamiche legislative e del lavoro della Corte Costituzionale, rendendolo un volume utile tanto agli studiosi quanto agli operatori.

Il professore ha quindi iniziato il proprio intervento ponendo l’accento su una questione di estrema importanza: dopo la riforma del Titolo V è nata l’esigenza di dare un significato concreto alle competenze regionali nelle varie materie. Questo significato, afferma il professore, è stato attribuito dalla Corte Costituzionale, che ha risposto ai molti interrogativi sollevati dalle scelte fatte dalla legge costituzionale del 2001 in chiave tendenzialmente non filo-regionalista, ma filo-statalista, tenendo conto, ad esempio, di come sono state ricostruite le cosiddette materie trasversali e di come è stata interpretata la sussidiarietà. Da qui, il prof. De Martin ha poi offerto due spunti di riflessione per quanto riguarda il regionalismo. Il primo mette al centro la differenza che si è mantenuta nel corso degli anni tra regioni ordinarie e a Statuto differenziato, sottolineando come vi sia stata una divaricazione progressiva a vantaggio delle seconde, soprattutto per la portata della giurisprudenza costituzionale che per le regioni speciali ha dato una lettura di favor, partendo da una clausola interpretativa in favore dell’autonomia (ex. Art. 10 Legge di riforma costituzionale). Dunque, secondo il prof. De Martin, il sistema regionale si caratterizza come un sistema a doppio binario, anche perché la riforma costituzionale in itinere sembrerebbe applicarsi nel breve periodo solo alle regioni ordinarie, aumentando la distanza tra le due categorie del sistema. Il secondo spunto di riflessione riguarda più propriamente l’attuale riforma costituzionale, che secondo il prof. sarà approvata senza grandi ostacoli nel giro di poco tempo (infatti, il giorno precedente alla tavola rotonda, il Senato ha approvato l’enorme Disegno di legge di riforma costituzionale). Le innovazioni in materia di poteri legislativi per le regioni sono in direzione di una notevole restrizione dell’ambito delle potestà legislative regionali. Infatti, molte materie verranno riaccentrate rispetto a quanto previsto nel 2001. Da un lato, attraverso la riforma del Senato, la riforma costituzionale in itinere mette al centro la voce delle autonomie locali tenendo conto della struttura plurale del nostro sistema, ma dall’altro riduce fortemente i poteri degli enti regionali che sembrano porsi in una posizione gerarchica rispetto alla potestà legislativa dello Stato che, secondo la clausola di supremazia e di flessibilità, può intervenire qualora le legislazioni regionali tocchino materie di interesse nazionale.

Il prof. De Martin conclude il suo intervento con un accenno all’ordine del giorno, che impegna il Governo a presentare rapidamente una proposta di riduzione del numero delle regioni prima dell’entrata in vigore della riforma costituzionale prevista per l’autunno 2016. Secondo il prof. De Martin si tratta di una proposta che difficilmente si concretizzerà, ma che tuttavia riflette un orientamento politico netto.

Mantenendo l’ordine alfabetico dei partecipanti alla tavola rotonda, De Martin dà quindi la parola al Prefetto R. Carpino, che ha svolto le funzioni di Direttore generale della Segreteria della Conferenza Stato-Regioni (2002-2006) non appena è entrata in vigore la riforma costituzionale del 2001. Approfitta, infatti, dell’invito alla tavola rotonda per ripercorrere cosa è successo negli anni post-riforma. La premessa della sua riflessione è quella di trovarsi in forte accordo con il prof. De Martin nell’affermare che il disegno di legge dell’attuale riforma costituzionale ridarà molte competenze allo Stato centrale, sottraendo molte competenze legislative alle regioni.

Tuttavia, il suo intervento si concentra su due aspetti peculiari, l’ordinamento degli enti locali e i servizi pubblici, entrambe materie di studio approfondito da parte del prefetto. Dopo aver anticipato la conclusione della sua digressione storica (dal 2001 ad oggi), vale a dire che per entrambe queste materie la direzione che si intravede è quella di un netto ritorno allo Stato, inizia dall’ordinamento degli enti locali. Dopo l’entrata in vigore della riforma del 2001, ci si è ritrovati senza la Legge 128 (che aveva poi consentito l’emanazione della Legge 142) che regolava in maniera abbastanza chiara l’ordinamento degli enti locali, riconoscendo le Regioni quale “centro propulsore delle autonomie locali” (citazione della Corte Costituzionale), sia per quanto riguarda l’allocazione che la regolazione delle funzioni. Col passaggio dalla L. 242 al Decreto legislativo 267 del 2006 (art. 4, Sistema regionale delle autonomie locali) si rafforza ancora di più il ruolo centrale delle regioni. Dalla riscrittura dell’articolo 4 e dalla sua interpretazione sarebbe dovuta seguire la Carta delle Autonomie Locali che avrebbe dovuto riaggiornare il Testo Unico tutt’ora vigente. La Carta, tuttavia, non ha mai visto la sua luce. Proprio a causa di questo “vuoto” normativo, il prefetto afferma che la questione in esame tornerà attuale nel momento in cui entrerà in vigore la riforma: bisognerà capire se il ruolo della regione tornerà ad essere quello che era prima del 2001 o se sarà qualcosa di diverso. Sicuramente, afferma, non sarà quello che è stato tra il 2001 ed oggi. Con la riforma costituzionale del 2001, inoltre, venendo meno l’articolo 128, ogni prefetto ha cercato degli stratagemmi per trovare degli spazi di competenza statale, dalla tutela della concorrenza all’ordinamento civile per quanto riguarda il rapporto di lavoro, dai Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) al coordinamento della finanza pubblica (che ha rappresentato il “grimaldello” principale) soprattutto in tema di associazionismo degli enti locali. Questo rappresenta, a grandi linee, il contesto in cui ci si è ritrovati in seguito alla riforma del 2001.

La questione delle regioni, tuttavia, non si deve affrontare solo in una prospettiva di contrapposizione allo Stato, ma anche in rapporto alla situazione dei comuni. Il prefetto spiega come dopo la riforma del 2001 le regioni si siano trovate in situazioni in cui alcuni comuni erano forti ed equi-ordinati in base all’art. 114, e che quindi non era possibile escluderli dalle “trattazioni” tra Stato e regione. Lo statuto comunale ha rappresentato un punto di caduta per la centralità del ruolo della regione, in quanto erano presenti statuti molto forti e non vi era concordanza di pensiero riguardo alla subordinazione dello statuto alla costituzione, alla legge regionale o alla legge nazionale. La soluzione fu trovata nell’art. 4 della Legge 231, secondo il quale lo statuto doveva rispettare i principi di organizzazione pubblica e la legge statale.

Il prefetto sposta poi il discorso su una tematica che spesso, a suo avviso, viene tralasciata, ossia quella dei controlli sugli enti territoriali, sottolineando come questi, nella prassi, manchino in larga misura. In conclusione di questa prima parte, il Prefetto afferma che le novità introdotte dalla riforma costituzionale in itinere non porteranno a grandi stravolgimenti dell’ordinamento degli enti locali. Anche per quanto riguarda i servizi pubblici, afferma, non vi saranno mutamenti significativi. Cosa cambierà, quindi, con la nuova riforma in tema di servizi pubblici? Se da un lato viene posto nuovamente l’accento sulla tutela e la promozione della concorrenza, dall’altro cambierà il modo in cui questo principio verrà declinato: secondo il prefetto un indizio lo si trova nell’articolo 19 della Legge Madia, che attribuisce la delega al Governo per fare un Testo Unico in materia di servizi pubblici: in questo modo è altamente probabile che molte materie oggi di competenza regionale verranno rimesse allo Stato.

In conclusione del suo intervento, il prefetto ribadisce che per quanto riguarda questi due aspetti – ordinamento degli enti locali e servizi pubblici – non prevede grandi stravolgimenti con l’entrata in vigore della nuova legge costituzionale.

A sostegno di quanto detto dal prefetto Carpino, la questione degli enti locali – aggiunge il prof. De Martin – è un nodo tutt’oggi irrisolto che difficilmente verrà sciolto con le nuove riforme.

Segue l’intervento del prof. M. Cecchetti, che apre declinando la domanda oggetto della tavola rotonda in due sotto-domande: “quale direzione ha la riforma costituzionale in corso?” e “quale direzione ha o potrebbe avere il nostro regionalismo?” Dopo un’ironica provocazione agli autori del testo, con cui sottolinea che il volume sia poco utile per un’analisi in prospettiva futura ma è piuttosto una celebrazione de profundis della riforma del Titolo V del 2001, si serve in realtà del contenuto del volume per affermare la centralità del diritto giurisprudenziale in materia di regionalismo: “la forma di Stato” – dice – “non ce la dà la Costituzione, ma il diritto giurisprudenziale”: dunque la forma di Stato che abbiamo oggi è quella che ci è stata indicata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e non dal testo di riforma del 2001. A questo proposito, il prof. sottolinea la forza del principio di continuità nel diritto giurisprudenziale e costituzionale e su questa base si chiede se tutto quello che la giurisprudenza ha fatto fino ad oggi non avrà un peso e un ruolo centrale anche nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme della nuova riforma costituzionale – insinuando, chiaramente, una risposta affermativa.

Dopo questa breve riflessione, sovvenutagli, appunto, dalla lettura del volume, il prof. risponde quindi alle due domande iniziali. Per quanto riguarda la prima – la direzione della riforma – dà una risposta netta: la riforma è chiaramente orientata in una direzione di riduzione profonda dell’autonomia regionale e di riconsegna allo Stato delle politiche pubbliche: il mito del pluralismo delle politiche pubbliche sembrerebbe tramontare e le regioni assumeranno funzioni amministrative e di coordinamento, e non saranno più dei laboratori politici-legislativi, nonostante si continui a parlare di legislazione regionale. Per quanto riguarda la seconda questione – la direzione del regionalismo – la risposta è più articolata. Secondo il professore, infatti, non è detto che il nostro regionalismo vada nella direzione voluta dalla riforma innanzitutto perché, ribadisce, in materia regionale la dottrina giurisprudenziale gioca un ruolo chiave e il principio di continuità ha un peso fondamentale. Il testo della riforma verrà consegnato ad un giudice con una giurisprudenza molto consolidata, specialmente in molti dei nodi presenti in quel testo (trasversalità, autonomia finanziaria ecc.). In secondo luogo, sono presenti degli indizi nello stesso testo costituzionale che lasciano prefigurare un’espansione del principio autonomistico: il principio di residualità di competenza legislativa, ad esempio, il legislatore lo lascia affidato alle regioni, che, dalla Sentenza 282 del 2002 continua ad operare nell’ordinamento a favore del legislatore regionale; vengono ampliati i campi del concorso di competenza; i principi dell’articolo 118 restano invariati, quindi non si avrà un ritorno al parallelismo nella ripartizione delle funzioni amministrative ma resta la sussidiarietà che vede nello Stato un ente ultra-sussidiario; viene data autonomia finanziaria alle regioni sebbene controbilanciata dall’intervento dello Stato. Emerge quindi un’autonomia costituzionale garantita a favore delle regioni e questo apre spazi giurisprudenziali tendenzialmente sconfinati.

Infine, riprendendo il discorso iniziale del prof. De Martin, il prof. Cecchetti accenna a quello che lui stesso definisce il “trampolino dell’autonomia”, che è l’istituto del regionalismo differenziato e che potrebbe portare a rompere il moloch del regionalismo dell’uniformità, consentendo un regionalismo a più velocita, assicurando una maggiore realizzazione del regionalismo della responsabilità: chi è capace di prendersi più autonomia se la può prendere, nel rispetto di certi limiti e di una relazione bilaterale che si contratta con lo Stato centrale.

Conclude l’intervento chiedendosi quale ruolo potrà avere in futuro il Senato. Il prof. Cecchetti la definisce come una situazione di grande compromesso, poiché non è stato costruito per funzionare secondo le logiche della rappresentanza delle istituzioni territoriali, ma d’altro canto non è neppure escluso né impedito che funzioni secondo logiche assimilabili a quelle della rappresentanza delle istituzioni territoriali.

Sempre rispettando l’ordine alfabetico, è il turno del prof. G. Meloni, il quale, dopo aver ironizzato sul fatto che non ha letto interamente il volume e dichiarando di essere d’accordo con quanto detto da chi l’ha preceduto, imposta il suo intervento ponendosi questa domanda: “quali sono le ragioni che hanno portato ad una riforma costituzionale come quella in itinere?” In primo luogo, nel dibattito tra flessibilità e rigidità del riparto dei poteri fra Stato e regioni ha prevalso la rigidità poiché è mancata una forma di raccordo a livello parlamentare, per esempio attraverso la predisposizione di una camera deputata a gestire un’eventuale flessibilità. La soluzione non poteva che essere, quindi, quella di elencare in maniera rigida i compiti attribuibili ai due soggetti. Oggi, invece, sembrerebbe affermarsi in modo drastico la flessibilità. In primo luogo, benché la residualità resti a favore delle regioni, la clausola di supremazia del 4° comma del nuovo articolo 118 prevede che lo Stato possa “riprendersi” le varie materie regionali quando si ravvisi un interesse nazionale.

In secondo luogo, la primazia dell’amministrazione è già stata confermata in passato proprio per superare la rigidità delle competenze legislative: rendere le regioni enti “amministrativi”, dunque, è un modo per rompere questa rigidità.

In terzo luogo, vi è stato uno “svuotamento” della competenza legislativa delle regioni. Ad esempio, in materia di governo del territorio, che cosa resta oltre all’urbanistica? Oppure, in tema di turismo, che era una tipica materia di competenza regionale, alla regione spettano oggi funzioni amministrative e organizzative, mentre le grandi scelte strategiche restano allo Stato centrale. La nuova riforma costituzionale rimette in discussione l’impostazione del 2001, che era basata sulla messa da parte della valutazione degli interessi per mettere al centro la sussidiarietà. Il testo originario della Costituzione, infatti, guardava l’interesse per ripartire le competenze legislative, mentre il testo di riforma del 2001 mette al centro il rapporto di vicinanza con il cittadino secondo il principio dell’adeguatezza: nel 1948, dunque, la residualità era basata su questo principio. Il testo di riforma in questi giorni oggetti di votazione in Parlamento, riafferma la logica – specie per quanto riguarda la legislazione – della dimensione dell’interesse: la clausola di supremazia, dunque, non può che riferirsi all’interesse nazionale divenendo una clausola di estrema flessibilità rimessa al decisore politico. In uno dei passaggi della Sentenza della Corte Costituzionale numero 303 del 2003 (“la madre del principio di sussidiarietà”), si dice che il principio dell’adeguatezza e della sussidiarietà si affermano perché le regioni non hanno dimostrato di essere adeguate a svolgere i propri compiti. Questa lettura era fortemente incentrata sull’adeguatezza amministrativo-funzionale dell’ente territoriale; il nuovo testo scardina questa impostazione e torna a ragionare in termini di interesse, andando in direzione opposta a quella dell’adeguatezza. La logica dell’interesse, ribadisce, rende molto più flessibile la logica del riparto. L’intervento del prof. Meloni si conclude con un interrogativo deliberatamente non giuridico, ossia: quanto è l’interesse per i cittadini ad avere una legislazione regionale piuttosto che statale? La risposta a tale domanda sta alla basa della scelta del nuovo testo di riforma.

Segue l’ultimo intervento del prof. G. Scaccia il quale dichiara subito di unirsi al plauso di chi l’ha preceduto nei confronti del volume, definendolo un’opera utile e molto dettagliata, che compie una rassegna accuratissima di tutti gli orientamenti della giurisprudenza sulle materie regionali. Dagli elogi al volume, trae spunto per affermare che proprio una tale complessità giurisprudenziale segna inequivocabilmente il fallimento del disegno iniziale che intendeva semplificare la linea di riparto tra Stato e regioni e rendere possibile la convivenza fra i due livelli legislativi, aprendo al contrario una conflittualità elevatissima. Il professore ritiene quindi opportuno interrogarsi su quali siano stati (2001) e siano ancora oggi gli orientamenti culturali alla base delle riforme costituzionali in quanto non è possibile – afferma – modificare una Costituzione ogni 12-14 anni. Alla base della riforma del 2001 vi era una sorta di ideologismo federalista, una prospettazione platonica di modelli di regioni pure, nelle quali si volevano trasferire tutte quelle “meraviglie” (cita Salvemini) che non si trovavano in ambito comunale, provinciale e statale, senza però definire in maniera chiara quali fossero queste “meraviglie” e come e perché avrebbero dovuto funzionare a livello regionale. Questo astrattismo di fondo emergeva soprattutto nel riparto delle competenze legislative, laddove, in seguito al lavoro di una grossa parte della dottrina, vi è stata un’iper-valorizzazione della funzione legislativa quale tratto dominante dell’autonomia della regione ed elemento chiave per poter determinare il protagonismo istituzionale dell’ente regionale. Tutto questo astrattismo dottrinale, evidentemente, non aveva nulla a che fare con le condizioni reali nelle quali le nostre regioni operavano e soprattutto scontava il superamento di un pregiudizio culturale (che la prassi ha dimostrato non essere ancora del tutto rimosso) secondo cui l’unità politica della Nazione sarebbe possibile solo attraverso la sua unità legislativa. La Corte Costituzionale, peraltro, ha dimostrato di non essere disponibile a mettere in discussione questo assioma e solo raramente ha interpretato in senso espansivo le competenze regionali ammettendo che ci possa essere una disarticolazione dei prodotti e degli indirizzi politici, soltanto qualora però siano riconducibili all’interesse politico della Nazione. La scommessa dell’iper-ruolo delle regioni derivante dalla riforma del 2001, è stata completamente tradita ed è fallita, e da allora sono riemersi dal profondo in cui erano state nascoste dall’ideologismo federalista quei “mostri” dell’interesse nazionale, della sussidiarietà a cui oggi si aggiunge anche la clausola di supremazia (ironicamente soprannominata “clausola vampiro” dal prof. D’Atena). La situazione di oggi si potrebbe definire, in contrapposizione alla prospettazione platonica della riforma del 2001, di iper-realismo nichilista: l’idea della riforma in itinere nasce dall’idea diffusamente accolta nell’elettorato secondo la quale le regioni sarebbero degli enti inutili, fonte di spreco, corruzione e clientelismo, e non mancano argomenti demagogici a sostegno di questa idea (il professore scherza sui dati relativi al costo dei consigli regionali di Sicilia, Trentino Alto Adige, Val d’Aosta ed Emilia Romagna): da qui tutti i ragionamenti sulle virtù dell’autonomismo degli enti territoriali si scontrano con un dato reale di habitat culturale. Se la riforma del 2001, dunque, nasceva da un platonismo ideologico di fondo che valorizzava le disomogeneità territoriali con un sentimento quasi “anti-statalista”, la riforma di oggi pare invece sostenuta da una tendenza contro-riformista secondo cui le regioni andrebbero addirittura eliminate dal novero degli elementi costitutivi dello Stato. Il professore riprende a titolo esplicativo la Sentenza 303, già citata dal prof. Meloni, per contrappore l’ideologia e gli effetti che producono da un lato il principio di adeguatezza e di sussidiarietà, centro propulsore della riforma del 2001, e dall’altro la clausola si salvaguardia, centro propulsore della riforma in itinere.

Procede quindi con la riflessione sulla riforma attuale. In primo luogo afferma che se è vero che si è preso atto della necessità di una maggiore centralizzazione della funzione legislativa, tuttavia si sta intervenendo con uno strumento che rischia di essere sproporzionato rispetto al fine, rendendo totalmente tendenziale e rimesso al decisore statale tutto il quadro delle competenze regionali: sembra quasi che la potestà legislativa regionale sia ottriata, concessa dallo Stato quando ritiene di concederla. In secondo luogo, mette in luce un ulteriore elemento ancora “difettoso” della riforma, sottolineando la sostanziale assenza di condizioni fattuali che rendano possibili una reale attuazione del principio di sussidiarietà: il principio è rimasto uguale nella sua formulazione originaria, ma si sarebbe dovuto intervenire sull’ultimo comma che utilizza il verbo “favoriscono”, in quanto ancora oggi non ne è stata data un’interpretazione univoca. Non si è agito, dunque, né sulla sussidiarietà orizzontale né su quella verticale e soprattutto non sembrano essere presenti nella realtà le condizioni oggettive per renderla una prassi concreta.

Queste condizioni mancano perché c’è una fortissima eterogeneità dei territori (alcune regioni hanno le dimensioni di un piccolo-medio Stato europeo, altre hanno la dimensione di un quartiere di Roma: ad alcune regioni viene dato meno di quanto possano effettivamente fare, e ad altre viene assegnato troppo rispetto alla loro effettiva capacità di intervenire): la ri-articolazione territoriale della Repubblica diventa allora un’esigenza reale se davvero si vuole dare un contenuto al principio di sussidiarietà. Ma il più grande fallimento del regionalismo del 2001 è rappresentato dal tema delle risorse: se si fosse conferita alle regioni la potestà tributaria, allora ci sarebbe potuta essere una connotazione politica effettiva delle scelte delle regioni, che avrebbe innescato delle dinamiche competitive tra le di esse, le quali, attraverso la politica fiscale, avrebbero svolto la politica “vera”, ossia la vera progettazione e programmazione anche ai fini dell’attrazione di investimenti e quindi della realizzazione di obiettivi di interesse economico.

In conclusione, dunque, se il difetto strutturale della riforma del 2001 era l’astrattismo, quello della riforma in itinere è un iper-pragmatismo, un iper-realismo che addirittura supera le acquisizioni della giurisprudenza costituzionale in senso restrittivo per l’autonomia delle regioni, arrivando a mettere in dubbio la natura di ente politico delle regioni.

Conclude il suo intervento con una riflessione sulla natura dell’autonomismo: il vero autonomismo – dice – non dovrebbe essere progettato dall’alto, ma piuttosto dovrebbe essere fatto partendo dallo sviluppo di dinamiche aggregative, lasciano spazi e libertà, nonché responsabilità, alle autonomie affinché possano affrancarsi dalla burocrazia statale. Citando una frase di Salvemini (“Quel che occorre in Italia, non è sovrapporre catafalchi di regioni buone a niente su gruppi di province buone a niente. Occorre invece trasferire dall’amministrazione centrale agli enti locali, comuni e province, fonti di reddito e funzioni che appartengono malamente oggi alla burocrazia centrale, liberare quelle amministrazioni locali dal soffocamento prefettizio e lasciare che i cittadini attraverso tentativi liberamente fatti ed errori pagati da loro stessi imparino a poco a poco ad autogovernarsi”), segnala come in questi anni quello che è davvero mancato in Italia è l’etica della responsabilità, senza la quale non ci possono essere le virtù “magnifiche” e progressive dell’autonomismo: tutti sono stati responsabili, ma ha sempre pagato lo Stato centrale.

Conclude la tavola rotonda il prof. A. D’Atena, che subito esprime un sincero apprezzamento ai curatori del volume in quanto si tratta di un libro che colma un vuoto, specie per quanto riguarda le materie “implicite”, “innominate” della competenza regionale. Tali materie, infatti, non avendo alcuna collocazione all’interno di fattispecie individuabili in Costituzione, sono ardue da ricostruire ma, afferma, tale compito è altamente riuscito ai curatori del volume. Prima di iniziare il suo intervento conclusivo, fa una premessa: per i giuristi che stanno al di fuori delle scelte politiche, è molto facile muovere delle critiche; bisogna sempre ricordarsi, però, che le norme sono frutto di tutta una serie di condizionamenti che la politica subisce e che richiedono di trovare i numeri per essere approvate.

Passa quindi alla riforma del Senato. Tale riforma – sostiene – introduce due dati positivi: innanzitutto il Senato diventerà la Camera rappresentativa degli enti territoriali; in secondo luogo il Senato non sarà più legato al governo da un rapporto fiduciario: questo elemento è positivo poiché i numeri vacillanti del Senato hanno sempre ostacolato la governabilità del Paese. Tuttavia, sono presenti alcuni difetti in questa riforma, come l’assegnazione regionale dei premi di maggioranza, la presenza di senatori non elettivi, la distribuzione dei seggi per ogni regione (da 2 a 14 senatori), la rappresentanza dei comuni. Tutto questo rappresenta un ulteriore elemento di difficoltà, ma che emerge dalle scelte politiche degli elettori. Anche per quanto riguarda le funzioni del Senato, il professore muove alcune riserve: ad esempio, che fine farà la Conferenza Stato-Regioni? Non si può pensare che una materia tanto delicata e complessa come il riparto delle competenze possa essere decisa in maniera bilaterale senza elementi di confronto.

Per quanto riguarda le regioni, il professore conviene con Scaccia sul conformismo collettivo anti-regionalista che deriva, in primis, dalla spesa, dal costo, delle regioni; il compito degli “anti-conformisti”, afferma, dovrebbe essere quello di verificare la veridicità di queste vulgate anti-regionaliste.

L’obiettivo dichiarato della riforma in itinere è quello della semplificazione e della razionalizzazione del riparto delle competenze: tuttavia, elementi di semplificazione sono presenti solo in parte: ad esempio, cade la competenza concorrente tranne che in alcuni casi, ma la competenza concorrente non è mai stata un problema del post-riforma 2001: la Corte Costituzionale ha disarticolato le materie di competenza concorrente attraverso la dicotomia principio-dettaglio, distinguendo ad esempio la definizione dei fini dalla definizione dei mezzi. Il lavoro è stato difficile, ma non ha mai sollevato questioni irrisolvibili. L’eliminazione della competenza concorrente, dunque, solo in apparenza è un elemento di semplificazione. Per quanto riguarda la clausola di supremazia (“clausola vampiro”) sottolinea come non sia definibile tale in quanto questa si tratta di clausola che permette al diritto statale di irrompere nel diritto regionale/locale ma solamente in presenza di determinate condizioni e presupposti che legittimano l’intervento dello Stato. Sarebbe più opportuno, quindi, definirla una clausola di esercizio analoga a quella dell’art 72 secondo comma della Legge Fondamentale tedesca. L’interrogativo che il prof. D’Atena muove è che cosa succederà nel caso italiano con l’entrata in vigore di questa clausola: il riferimento all’interesse nazionale, infatti, sarà difficilmente sindacabile. Il problema vero è che una volta introdotta una clausola di questo tipo, il rafforzamento procedimentale dovrà essere forte: la partecipazione del Senato delle autonomie avrebbe dovuto essere costruita in termini più robusti. Questo rappresenta, per il professore, l’elemento più debole della riforma poiché ad un riparto delle competenze a favore dello Stato non c’è stato un meccanismo correttivo; anzi, tale meccanismo è stato costruito in termini eccessivamente centralistici.

In conclusione, alla domanda “Quale regionalismo dalla riforma costituzionale”, il professore riassume la risposta nella clausola di salvaguardia e in ciò che essa comporta.

 

a cura di Giulia Permon