Giovani europei: una generazione a rischio di perdita della cittadinanza, il divario generazionale e la via per superarlo

20.05.2015

Dopo cinque mesi di lavori condotti dalle ricercatrici del Clubdilatina presso il castello Caetani di Sermoneta, sono orgoglioso di poter dire che la via per misurare il divario generazionale è stata tracciata. In realtà, i primi miei studi sull’argomento risalgono al 2013 e le basi delle successive riflessioni  sono state esposte nel libro Ladri di Futuro. La rivoluzione dei giovani contro i modelli economici ingiusti, pubblicato dalla Luiss University Press nel 2014.

I risultati di analisi svolte per il ClubdiLatina, che ha promosso e finanziato il gruppo di ricerca a Sermoneta, sono raccolti nel volume Divario Generazionale. Il senso della dismisura, pubblicato proprio nei giorni scorsi nella collana Ricerche del Comitato Scientifico della Fondazione Bruno Visentini.

Non è certo possibile affermare che è stata trovata la soluzione, o meglio le soluzioni possibili per ricostruire quel “contratto sociale” che impegnerebbe ogni generazione a lasciare a quella successiva un mondo migliore o comunque non peggiore di quello ereditato. Un contratto non scritto, che in nome dell’equità generazionale impone di prendersi cura anche di coloro che, perché non ancora nati, non possono avere diritti sulla carta, ma devono trovare spazio tra le nostre preoccupazioni.

Grazie agli spunti emersi da un’esperienza analoga maturata da qualche anno in Inghilterra con l’introduzione dell’Intergenerational Fairness Index (indice di equità intergenerazionale) e dalle rilevazioni effettuate dal Commonwealth Youth Programme (CYP) in collaborazione con Institute for Economics and Peace (IEP), è stato messo a punto un nuovo indicatore, che abbiamo voluto chiamare Indice di Divario Generazionale (o GDI, acronimo inglese di Generational Divide Index), frutto dell’esame di dodici domini composti complessivamente da ventisette indicatori elaborati con dati provenienti da fonti istituzionali, tutti misurabili annualmente e basato sul concetto di generational divide (divario generazionale).

Una definizione quest’ultima che potrebbe apparire paradossale e pure contradditto­ria; soprattutto negli Usa questo termine viene usato riferendosi alla forte propensione dei giovanissimi a fare ricorso a strumentazione e piattaforme elettroniche multimediali, assolutamente sconosciute ai propri genitori, qui invece non si prende in considerazione l’aspetto tecnologico ma quello economico e sociale, e in posizione di divide sono i giovani, non i più gli adulti. Un concetto, quello di “ritardo”, che induce a considerarne anche i costi, sia in termini individuali che sociali.

Il termine ritardo è, a mio modo di vedere, molto appropriato, perché contiene in sé due elementi che bene circostanziano l’attuale difficile sfida che attende i giovani.  Il primo elemento è il costo per recuperare il ritardo accumulato: l’essere in ritardo implica infatti degli sforzi addizionali per recuperare il tempo e il terreno perduto; sforzi che a loro volta generano costi maggiori, come, per esempio il ricorso ad un mezzo di trasporto più rapido ma più oneroso.

Il secondo elemento è il rischio di non arrivare per tempo a prendere il treno/opportunità che la vita ci offre. Un rischio che potrebbe quindi escludere dalla collettività un numero sempre maggiore di giovani.

Così il termine divario (o divide in inglese) è qui utilizzato nella accezione di distanza dal percorso ideale e non invece come metro di paragone con lo standard di vita di differenti generazioni (in quel caso si parla di differenza o gap generazionale). Il confronto con gli indicatori di benessere di altre generazioni non è dunque il fine, ma semplicemente un mezzo per misurare l’intensità del ritardo accumulato da una generazione che stenta a trovare la via.

Il set di indicatori proposto è dunque molto articolato e mette in relazione il tasso di disoccupazione giovanile, per dirne uno molto noto, al tasso di percezione dello stato di salute, per dirne uno meno noto, e va ben oltre quello utilizzato dal YDI e dall’IF sopra citati e il cui obiettivo principale è quello di comparare differenti realtà paese.

Il primo prevede, infatti, solo cinque domini, cioè l’educazione, la salute/benessere, il lavoro e la partecipazione politica e la cittadinanza attiva dei giovani (gli indicatori sono volontariato giovanile e solidarietà verso gli stranieri) e attribuisce al nostro paese, in una scala da 0 (nessuno sviluppo per i giovani) a 1 (massimo sviluppo per i giovani), 0,70 punti. Nella graduatoria mondiale YDI, che raccoglie 170 paesi, l’Italia si posiziona al cinquantesimo posto; una posizione non molto confortante se si pensa che nell’Europa  a 28 il paese è al ventunesimo posto, a pari merito con l’Estonia e davanti alla Bulgaria.

Il secondo presenta una tassonomia composta da nove domini: la disoccupazione, l’accesso alla casa, le pensioni, il debito pubblico, la partecipazione democratica, la salute, il reddito, l’impatto ambientale e l’educazione. Quest’ultimo, in particolare, risulta molto articolato e prevede un paniere di quattro indicatori: non solo il livello di spesa pubblica nell’educazione, ma anche le spese medie da sostenere per il conseguimento di un diploma, il tasso di alta scolarizzazione e il ricorso ai prestiti d’onore.

Nessuno spunto, purtroppo, dall’indicatore di Benessere Equo e Sostenibile (BES)  recentemente introdotto in Italia, che nell’ampio set di indicatori raccolti in dodici domini non presenta riferimenti a particolari coorti giovanili, ad eccezione del solo dominio dell’istruzione e dell’educazione.

La costruzione del set di indicatori che ha condotto al GDI parte dunque da tre considerazioni.

La prima è stata la necessità di dare maggior peso etico alla costruzione dell’indicatore di divario generazionale, grazie a una rifondazione degli elementi che possono/devono contribuire a un sereno e adeguato sviluppo delle generazioni più giovani, quelle, per intenderci, che sono nella delicata fase del ciclo di vita in cui prima ancora che le aspettative, sono le capacità e le vocazioni a essere coltivate. Quella fase in cui “si sviluppa” la maggior parte del capitale umano, cioè quel contenitore nel quale, se solido e capiente, andranno a sedimentarsi, mano a mano, le conoscenze e le esperienze che la vita riserverà a ciascuno. Da questo riesame, gli originari “domini” sono stati arricchiti da altre dimensioni, come quella dell’accesso al mercato, della domanda di mobilità e dal clima di legalità: valori senza i quali altri indicatori, come la spesa in educazione, la salute o la stessa occupazione avrebbero poco significato. In particolare, relativamente all’accesso al mercato, si è voluto concentrare l’indicatore sulla disponibilità di credito da parte dei giovani e delle famiglie giovani. Questo per due ragioni: la prima è che solo con un corretto accesso al mercato del credito è possibile “investire” nel proprio futuro pianificandone le tappe; la seconda è che il credito è uno dei principali volani per rilanciare i consumi. Questo approccio differenzia il GDI dall’IF in particolare.

La seconda considerazione attiene alla necessità di adeguamento della misurazione alle fonti istituzionali disponibili nel nostro paese. Il criterio adottato è stato quello di ricorrere a fonti primarie, come Istat e Banca d’Italia, che costituiscono la più attendibile piattaforma di dati e serie storiche. Solo dove non disponibili, si è fatto ricorso ad altre fonti, non dopo però una validazione delle stesse da parte dei competenti componenti del Comitato Scientifico del ClubdiLatina. Questo approccio differenzia il GDI dal YDI, che fa ricorso a molti sondaggi su base campionaria limitata.

Ne è sortita una batteria di indicatori e sotto-indicatori molto articolata, che certamente non agevola la comparazione con altre realtà paese (che è lo scopo dichiarato degli indicatori IF e YDI), ma può essere considerato un valido strumento di misura per il nostro paese o realtà locali nelle quali si voglia verificare in concreto la sostenibilità intergenerazionale di un’azione di riforma o di un intervento specifico. E’ questa la terza considerazione a base dell’indagine, che ha l’obiettivo appunto non tanto di comparare, ma di misurare l’impatto di determinate azioni sul divario generazionale. Un intendimento in linea con lo scopo dichiarato dai fondatori del ClubdiLatina, che hanno voluto provare a creare le basi per intervenire sul destino delle giovani generazioni che, aldilà dei già pur allarmanti dati sulla disoccupazione giovanile e sui Neet, impongono soluzioni tempestive e soprattutto “calate” nel contesto specifico.

Venendo alla tassonomia utilizzata, alcuni domini attengono al capitale umano giovanile e sono la disoccupazione, il reddito e la ricchezza disponibili, l’educazione  e la salute; uno è relativo al capitale naturale mentre gli altri riguardano il contesto del capitale sociale che dovrebbe essere messo a disposizione dei giovani e attiene al tema abitativo, al carico delle pensioni, al debito pubblico, al digital divide, alla legalità e alla partecipazione democratica. Quest’ultimo tema è l’oggetto appunto del mio intervento odierno.

Troppe volte, e questo è anche l’errore in cui spesso cadono anche gli amministratori di Bruxelles, si è pensato che una medicina possa andare bene per tutti i pazienti. L’impasse in cui si è venuta a trovare la Garanzia Giovani proprio nella sua fase di avvio in alcune delle regioni italiane più colpite dalla disoccupazione giovanile ne è la testimonianza acclarata.

Bisogna dunque domandarsi se non sia folle provare a misurare un complesso di situazioni che per loro natura sono difficilmente comparabili. Eppure, quel senso di “dismisura” che pervade molte testimonianze di giovani ai quali è pure negato il diritto di sognare una vita, quel senso di “dismisura” che ha acceso gli animi di molti dei soci del Clubdilatina e che li ha visti quasi colpiti e feriti al pensiero del futuro che attende i loro figli, ebbene proprio allora si è capito che dismisura è termine diverso da non misura. Una cosa è talmente lontana da non poter essere vista, ma questo non significa non possa essere raggiunta.

Immaginando che un giovane normodotato possa percorrere una strada piana di cinque o sei chilometri in circa un’ora, dobbiamo presupporre che se la stessa è irta di ostacoli (muri, fiumi senza ponti, boschi ecc.) il tempo necessario possa dilatarsi sino, teoricamente, ad arrivare all’infinito se un ostacolo si dimostra invalicabile.

Così, il nostro GDI non pretende di “misurare” quanto tempo sia necessario per raggiungere la meta, ma quanto alti sono gli ostacoli e quanto tempo sarà perso per superarli. Una specie di misurazione al contrario, che, infatti, abbiamo chiamato “ritardo” generazionale.

E’ stato così possibile cominciare a misurare l’aggravarsi della situazione generale nei confronti delle giovani generazioni e, in modo inaspettato, scoprire che questo indicatore “peggiora” molto di più dell’economia nel suo complesso. Un indicatore che, questo è un altro fattore importante, ha iniziato a sancire il declino delle giovani generazioni ben prima dell’avvento della attuale crisi.

Fatto cento il 2004 dunque, ecco come il ritardo aumenta negli anni che seguono, con maggiore intensità dall’avvento della crisi. Nel 2012, ultimo anno di rilevazione con tutte le fonti disponibili per costruire gli indicatori prescelti, questo indice è salito a 135. Lo stesso, seguendo delle previsioni attendibili e presupponendo non intervengano correttivi agli attuali trend, sale a 171.

In occasione di alcune presentazioni, per dare una “unità di misura” ho immaginato che se un giovane di ventiquattro anni nel 2004 avrebbe impiegato dieci anni per acquisire un lavoro sufficientemente redditizio, per l’acquisto, ancorché con mutuo, di una casa e per costituirsi una vita autonoma da quella della famiglia di provenienza, lo stesso giovane nel 2020 ci metterà 17,1 anni in più. Cosa non da poco dire a un giovane che sarà “grande” solo ultraquarantenne.

Possiamo però immaginare che la misura del GDI non sia temporale ma spaziale e dunque proviamo a pensare allo stesso ventiquattrenne che sulla sua strada si trova un muro alto un metro. Se si tratta di un giovane normodotato e in salute, con un po’ di fatica e inventiva riuscirà a superarlo. Ma se il muro diventa di 135 cm., solo i giovani “atletici” riusciranno a farlo. Questo significa che un certo numero di giovani non arriverà mai all’obiettivo. E se il muro è alto 171 cm., solo un atleta vero e proprio riuscirà a saltarlo. E gli altri? Ci riuscirà soltanto chi potrà contare su un amico che gli faccia da scaletta, e qui entra in gioco il familismo, che è una delle grandi piaghe del nostro paese. Dunque chi non ha un amico rimarrà al di qua del muro. I milioni di giovani Neet italiani testimoniano che sono sempre di più quelli che si trovano in questa triste situazione.

Il GDI non porta però solo le brutte notizie perché, se è vero, come dicevo, che questo indicatore non ci indica ancora la soluzione, esso è in grado di verificare la bontà o meno di una politica o di una soluzione proposta per uscire dalla crisi e cioè per abbassare il muro o accorciare il tempo per raggiungere la meta, come si preferisce vederla.

Volendo fare ancora un paragone con la medicina, potremmo affermare che il GDI non è l’antibiotico, ma il termometro che misura la febbre e che, somministrata una qualsivoglia cura, permette di stabilire se l’infezione in corso è sedata o meno.

Le prime indicazioni operative giungono dall’esame nel dettaglio dell’andamento dei singoli indicatori del GDI. Vi sono alcuni indicatori che maggiormente hanno contribuito e contribuiscono all’aggravamento della situazione, come il peso delle pensioni, la questione abitativa e il reddito disponibile. I dati di questa indagine ci dimostrano cioè come non sia sufficiente (anzi, forse è inutile) affrontare il problema della questione giovanile provando a concentrare gli sforzi su un solo ambito, ma sia necessario un approccio multidimensionale. Volendo contestualizzare quest’assunto nel dibattito acceso nel periodo in cui questa ricerca è pubblicata, ci si rende conto come la riforma del lavoro e la creazione di maggiori e migliori strumenti per agevolare l’accesso dei giovani al mondo del lavoro non possano rimanere isolati. Se anche gli altri elementi non sono contemporaneamente aggrediti, il risultato sarà che nel medio periodo gli sforzi economici e finanziari profusi per sostenere la politica di incentivo ricadranno proprio su coloro che ne erano destinatari.

Voglio qui concentrarmi sul dominio della cittadinanza attiva, riprendendo alcuni spunti della ricerca attorno all’indicatore del divario generazionale. Alcuni studiosi (Stokes, 1962; Hetherington, 1998) hanno definito la “fiducia politica” come elemento alla base della valutazione dell’operato del governo. Tale variabile permette di comprendere come lo stato sta governando in relazione alle aspettative dei cittadini. Si ritiene che nei criteri di giudizio impliciti siano incluse questioni etiche come l’onesta e altre qualità etiche di pubblici ufficiali, ma anche questioni relative all’abilità e all’efficienze degli ufficiali di governo e la correttezza delle loro decisioni politiche.

Il primo sotto-indicatore prescelto è dunque la fiducia nei politici. L’indicatore rapporta la percentuale di giovani fra i 15 e i 34 anni che esprime fiducia nei partiti politici con l’analoga percentuale di tutti i cittadini.  Al crescere dell’indicatore aumenta il divario intergenerazionale. La fiducia in generale nella politica è essenziale per un adeguato funzionamento della democrazia, altrimenti il supporto nei confronti delle istituzioni decresce e la relativa legittimità inizia a essere chiamata in causa.

Weber sottolinea l’importanza del fatto che i cittadini considerino i comandi dei corpi burocratici come “legittimi”. Egli, infatti, asserisce che l’obbedienza a un ordine o a una legge non dipende solo dall’allineamento degli interessi o dagli incentivi che possono derivarne, ma anche dal considerare “appropriata” un certa accondiscendenza verso questi ordini (Bendix e Weber, 1984).

Inoltre, la mancanza di supporto da parte dei cittadini può ledere il funzionamento dell’organizzazione statale a medio lungo termine. La sfiducia, infatti, porta a disapprovazione e questa genera difficoltà per i leader nel gestire le risorse per risolvere i problemi (Neustadt, 1990), ciò limiterà la capacità di risolvere le difficoltà ordinarie e straordinarie depauperando le autorità del proprio potere. Tale circolo negativo comporta che “la sfiducia genera le condizioni per la creazione di altra sfiducia” (Gamson, 1968).

D’altro canto, la fiducia ha incidenze positive da un punto di vista politico e psicologico, dato che conferisce all’individuo la visione di una realtà più semplice e ottimista, evitando di mettere in discussione l’operato delle istituzioni. Tutto questo contribuisce al benessere e permette all’individuo di avere la serenità di aprirsi alle relazioni, senza paura e necessità di chiudersi per timore di essere vittima di ingiustizie sociali. Inoltre, uno studio (Newton, 2001) rileva che la fiducia nelle istituzioni incrementa il desiderio di pagare le tasse e di cooperazione sociale (Scholz e Lubell, 1998).

Da quanto emerge finora, il tema della fiducia politica è rilevante ai fini di un buon funzionamento sociale e ha un’incidenza sul benessere dell’individuo. Quali sono le conseguenze di una scarsa fiducia? Secondo taluni ciò potrebbe anche condurre a un cattivo funzionamento del sistema politico, a causa del basso livello degli standard organizzativi o delle eccessive aspettative nei confronti della politica (Newton, 2001). Certo è che il punto fondamentale per la democrazia è avere leader onesti o affidabili e, cosa ancora più importante, vivere in un sistema politico che assicuri un comportamento trasparente. La fiducia politica è, infatti, importante perché le democrazie si fondano su meccanismi istituzionali che assicurano principi di lealtà e di correttezza verso i cittadini.

Le conseguenze di una delusione derivante dal sistema politico porta al rifiuto dello stesso e alla riluttanza verso abitudini come votare, scrivere lettere ai parlamentari, partecipare ad una campagna elettorale (Citrin, 1974). Coloro che si allontanano dalla politica possono reagire in due modi: in un modo passivo, divenendo cinici, apatici e disinteressandosi completamente ai temi sociali, o in maniera aggressiva e non convenzionale, partecipando a sit-in, sommosse e rivolte. Schwartz (Schwartz, 1973) affermava che uno studente universitario che si allontana dalla politica tende a respingere una partecipazione politica convenzionale. Il tipo di reazione dipende anche da variabili esterne, quali il supporto esogeno all’avversione alla politica,  dallo stato sociale del soggetto e dalla personalità. Ci sarebbero state delle forti correlazioni tra le proteste e disordini nella Baia di San Francisco e la disaffezione per il governo locale (Citrin, 1974).

Questo conferma che il rifiuto della politica, molto spesso, porta a comportamenti politici oppositivi, passivi o aggressivi che siano.  Tutto questo ha un maggiore impatto sui più giovani? I risultati della ricerca Divario generazionale. Il senso della dismisura mostrano come dopo il 2009 l’indicatore del divario nel grado di fiducia verso i partiti fra adulti e giovani si riduca, la loro percezione risulta essere più allineata. La riduzione del divario non è dovuta però ad un accresciuto livello di fiducia da parte dei giovani, bensì ad un crollo netto della fiducia generale. Nel 2009 il 32% degli intervistati esprimeva fiducia verso i partiti e nel 2012 solo il 14%. Questo calo generico sembra essere la conseguenza di un sistema bloccato da troppo tempo (Rosina, 2010).

La situazione economica italiana non dà segni di miglioramento e nasce un sentimento d’insoddisfazione verso gli attori politici. Si crea un clima di delusione che porta a un aumento della sfiducia (Sciolla, 2008). Nel 2011 in molti percepiscono un peggioramento della situazione e aumentano coloro che non danno credito ai partiti. I partiti politici vengono ritenuti incapaci di migliorare la situazione ed incidere in modo positivo, percezione rafforzata dall’avvento di un governo tecnico nel 2012.

Vengo ora al tasso di partecipazione al voto dei giovani, che è il secondo dei tre sotto-indicatori prescelti. L’indicatore evidenzia la percentuale di giovani fra i 18 e i 24 anni che non ha votato sul totale dei giovani aventi diritto al voto. Per ottenere il numero dei non votanti giovani è stato ricavato il numero dei giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno votato, sottraendo al numero di votanti alla Camere il numero di votanti al Senato. Il dato così ottenuto è stato rapportato al numero di giovani aventi diritto al voto, ottenuto sottraendo al numero degli aventi diritto al voto al Senato, il numero degli aventi diritto al voto alla Camera. Al crescere dell’indicatore aumenta il divario intergenerazionale. Questo indicatore presta il fianco a coloro che ritengono i giovani siano maggiormente predisposti a prendere parte della vita politica in maniera informale: firmando petizioni, facendo donazioni, partecipando a dimostrazioni piuttosto che iscrivendosi ad un partito o scrivendo ai rappresentanti in carica (Henn, Weinstein e Forrest, 2005). Si è preferito tuttavia considerarlo perché ancora più affidabile rispetto alle rilevazioni sulle attività informali.

Il terzo indicatore riguarda la presenza di giovani nel massimo organo assembleare del paese, cioè il Parlamento. L’indicatore misura la percentuale dei giovani eletti alla Camera tra i 25 e i 39 anni  sul totale dei deputati. Una diminuzione dell’età dei politici indica una riduzione del divario intergenerazionale. Una diminuzione dell’indicatore indica una riduzione del divario intergenerazionale.  Questo elemento è stato preso in considerazione nel calcolo dell’indice finale.

Per un paese, l’età dei parlamentari è una variabile importante. Essa influenza, infatti, la logica delle decisioni politiche attraverso le scelte effettuate da una classe dirigente che dovrebbe essere più o meno rappresentativa degli interessi generali.  In realtà, nel considerare l’aspetto anagrafico dei rappresentati politici, è più opportuno rivolgersi al concetto di “generazione politica”: gruppo di individui che ha avuto le stesse esperienze storiche fondamentali nel corso dei propri anni formativi (Rintala, 1968). “Per generazione politica si intende, inoltre, l’insieme dei membri di un gruppo di età o coorte che – confrontati con determinati eventi chiave – sono giunti ad una contrapposizione consapevole, sulla base di idee affini con le idee guida ed i valori tipici dell’ordine politico in cui sono cresciuti” (Fogt, 1982). Il gruppo di soggetti rientranti nella stessa generazione sono accomunati da eventi cardine nella storia del periodo. Questo non incide in sé nella formazione di una generazione, piuttosto nella sua rielaborazione sociale e ricostruzione nella memoria collettiva di un gruppo (Bettin, 2009). Essa, infatti, conferisce un senso ai fatti vissuti e crea delle categorie e dei fili conduttori in cui ritrovano punti in comune i membri di una stessa coorte di età. Ciò implica che “per membri appartenenti ad una determinata generazione sarà difficile, se non impossibile, comunicare politicamente con le generazioni precedenti e con quelle successive” (Rintala, 1968).

L’analisi in oggetto diviene particolarmente importante all’interno del divario generazionale: in mancanza di giovani rappresentanti nelle istituzioni politiche vi sarà un potere decisionale debole da parte delle nuove generazioni. Tutto ciò, oltre ad essere ingiusto, comporta anche altri effetti a medio-lungo termine, poiché la gioventù non accetta come dato l’ordine stabilito e non è condizionata da interessi investiti nell’ordine economico (come avviene per le coorti di cinquantenni) o in quello strutturale (Marias, 1968). Da parte di tale categoria ne consegue, dunque, un approccio innovativo alle cose e la potenzialità di risorse adeguate per mettere in discussione lo stato politico di un paese.

In una situazione come quella italiana, in cui, da un lato, la quantità di giovani diminuisce (ritarda il suo ingresso nella condizione adulta) e dove, dall’altro, gli anziani aumentano (e vogliono mantenersi attivi nel mercato del lavoro più a lungo), la scarsa influenza dei giovani è destinata a rendere un paese obsoleto e senza risorse essenziali al cambiamento ed all’innovazione.

Fino a circa due anni fa, la scarsa presenza di giovani all’interno della compagine decisionale rappresentava uno dei tratti tristemente tipici del sistema politico nostrano. Infatti, nel corso degli anni considerati, si riscontra una percentuale di under 40 eletti in Parlamento pari, in media, al 6,5 %, con un’età media di 54 e 57 anni, rispettivamente alla Camera e al Senato, a testimonianza della grande difficoltà riscontrata dai giovani nel giocare un ruolo attivo all’interno dell’arena politica nazionale.

Solo a livello locale e nei piccoli comuni, i giovani di età compresa tra i 20 e i 35 anni sembrano svolgere un ruolo di maggior rilievo.

In base ad una indagine promossa Coldiretti, Governo e Parlamento in Italia risultano nel 2012 tra i più vecchi d’Europa e, in generale, si evidenzia come la maggior parte delle istituzioni pubbliche e delle società private nel nostro paese siano caratterizzate dall’immobilità della classe dirigente, a fronte di un tasso di disoccupazione giovanile sempre più in aumento e che, a oggi, ha raggiunto la soglia del 40%.

I risultati elettorali del 2013, a prescindere dalla coloritura politica e dall’impronta ideologica, hanno rappresentato per il nostro paese, con l’entrata del Movimento 5 Stelle e il successo elettorale del Partito Democratico, un forte cambiamento generazionale.

Dalle elezioni è emerso il Parlamento più giovane della storia repubblicana, con una età media di deputati e senatori di 48 anni, la più bassa in Europa e non solo. È di nuovo la Coldiretti con il secondo rapporto sull’età media della classe dirigente italiana, realizzato in collaborazione con il Gruppo 2013, ad analizzare la questione. Per i deputati l’età media si attesta sui 45 anni, inferiore di ben nove anni rispetto alla precedente legislatura, mentre per i senatori si parla di un’età media di 53 anni, quattro in meno rispetto ai loro predecessori. I deputati under 30 sono 34, un netto aumento rispetto agli unici due della passata legislatura. Come sottolineato dalla Coldiretti, è la prima volta che, nella storia repubblicana, l’età dei deputati e quella media della popolazione italiana (43 anni) arrivano quasi a coincidere.

I nostri parlamentari sono, infatti, ad oggi, tra i più giovani non solo rispetto ai colleghi europei, ma anche a quelli americani: in Francia l’età media dei deputati  è di 55 anni, minore di due anni in Spagna e Germania e di tre nel Regno Unito, mentre negli Stati Uniti l’età media dei rappresentanti alla Camera supera di ben undici anni quella media italiana. Ancora più accentuato è il divario generazionale al Senato: 53 anni per i senatori italiani, sedici anni in meno rispetto agli onorevoli inglesi e nove rispetto a quelli francesi e statunitensi.

Il nuovo Parlamento rappresenta, pertanto, un primo passo per colmare quel divario generazionale che pone oggi i giovani italiani in una posizione di netto svantaggio, rispetto al passato, nella strada da percorrere per la realizzazione dei propri obiettivi professionali e non solo.

I dati abbastanza confortanti relativi all’indicatore della cittadinanza attiva non devono però condurre a facili entusiasmi per almeno due motivi. Il primo è che l’exploit elettorale dell’ultima tornata è e deve considerarsi un evento eccezionale e come tale difficilmente ripetibile.

In secondo luogo, ed è questa la mia vera fonte di preoccupazione, la cittadinanza attiva non può prescindere dalla reale condizione di disagio giovanile rappresentata dall’indicatore di divario generazionale nel suo complesso e che, come ricordato all’inizio del mio intervento, tende a peggiorare sempre di più.

Bisogna quindi sperare che ora avvenga un miracolo, cioè che questo nuovo indicatore diventi di dominio pubblico ed entri a far parte del dibattito politico e poi anche nell’azione politica e nella auspicata e rinforzata cittadinanza attiva.

Ci sono pagine e pagine di giornali che discutono di spread tra i nostri buoni del tesoro e quelli tedeschi e spagnoli; la folle speranza è che ora si mettano a discutere anche di come e perché dalla crisi bisogna uscire senza sacrificare un’intera generazione. Con la speranza che il GDI sia il termometro della guarigione di una collettività che dall’equità generazionale e dall’economia locale a misura d’uomo deve saper ripartire.

Non si dica che è impossibile, perché questa parola, lo hanno dimostrato gli autorevoli confinati su questa Isola di Ventotene, non fa parte del nostro lessico.

 

Contributo di Luciano Monti al convegno “Fondi europei e cittadinanza attiva”, Isola di Ventotene, Centro Polivalente Umberto Elia Terracini, 9 Maggio 2015. Per maggiori dettagli e per i risultati dell’indagine relativa all’indicatore della partecipazione democratica vedi l’analisi di Piera Matarazzo (Cap. 3, p. 68 e seguenti) in Divario generazionale. Il senso della dismisura, a cura dello stesso A., Alter Ego, Viterbo, 2015.
Luciano Monti