Stefano Cognetti, Legge Amministrazione Giudice. Potere amministrativo tra storia e attualità, Giappichelli, 2014

07.05.2015

Il nuovo lavoro di Stefano Cognetti ripercorre, adottando una prospettiva diacronica e trasversale quanto alla scansione temporale dell’oggetto d’indagine e alla vastità delle discipline pubblicistiche di volta in volta esaminate, la nascita e lo sviluppo storico del diritto amministrativo inteso come “applicazione imparziale del diritto all’amministrazione”.

La ricostruzione sistematica proposta dall’Autore muove dalla distinzione di massima tra il concetto di “amministrazione pubblica”, intesa quale soggetto ordinamentale “provvisto di una sua peculiare struttura organizzativa” e la nozione di “diritto amministrativo”, concepito quale canone  generale di soggezione del potere pubblico al diritto.

La pregevole monografia in disamina intende appunto gettare luce sulle principali linee evolutive che, almeno a far tempo dall’Età dei Lumi, hanno lentamente ma inesorabilmente mutato l’assetto degli equilibri di potere tipici dell’ancien régime, conducendo, nella penisola italica come altrove, all’emersione del costituzionalismo moderno e, da ultimo, alla caratterizzazione degli odierni ordinamenti costituzionali “democratici” come contraddistinti da una piena giustiziabilità dell’azione amministrativa.

La coesione del percorso argomentativo proposto, che considera una finestra temporale particolarmente ampia e tiene conto dell’interdisciplinarietà del tema indagato, è assicurata dall’esame, lungo tutto il corso del lavoro, di un rapporto trilaterale fondamentale, che costituisce il filo rosso dell’intera trattazione e, nel contempo, ne garantisce l’intima coerenza: i termini-chiave di tale rapporto sono la legge, l’amministrazione e il giudice.

E’ invero sulla scorta dei diversi modi di concepire il ruolo dei singoli “attori” e le regole che, nel corso dei secoli, ne disciplinano i rapporti, che l’Autore ricostruisce l’iter evolutivo della sottoposizione alla legge del potere amministrativo per tramite di un giudice terzo e imparziale.

Il primo capitolo, “Le origini del diritto amministrativo. Dall’assolutismo allo Stato di polizia” affronta l’emersione, seppure in forma embrionale, del rapporto tra amministrazione e legge: a fronte di una “esigenza incalzante […] di porre limiti al potere statale”, di cui l’Autore fornisce opportunamente le coordinate storiche e filosofiche, si affermano nuovi equilibri di potere dovuti alla formazione di un sempre più rilevante “ceto borghese” che, in contrapposizione con la burocrazia regia, reca con sé pretese giuridiche e di tutela sino ad allora ignote.

Nel corso del XVIII secolo, dunque, in corrispondenza con l’affermazione del ceto borghese quale inedito attore sociale, prende forma il concetto di “bene comune”, inteso come interesse della collettività (“Gemeinwohl”) che non si identifica né tantomeno si dissolve nella tradizionale nozione di interesse esclusivo del Sovrano, sulla quale era impostato l’antico regime. Su questa base, secondo la ricostruzione dell’Autore, lo Stato di polizia, fondato sul perseguimento del bene comune e sulla reimpostazione in chiave compromissoria dei rapporti di forza tra aristocrazia e borghesia, viene gradualmente a sostituirsi allo Stato assoluto: esempi di un siffatto mutamento di prospettiva politico-giuridica sono rappresentati, in particolare, dalle esperienze prussiana e austriaca, in cui, almeno con riguardo alle controversie di diritto privato, si attua un primo distacco dalla classica compenetrazione tra amministrazione e funzione giustiziale propria delle istituzioni camerali.

Viceversa, un vero e proprio controllo giurisdizionale rispetto alle controversie di diritto pubblico tarda a svilupparsi – anche nell’esperienza francese – fino all’avvento dell’elezione democratica dei parlamenti, considerando che lungo il corso del XIX Secolo alla diffusione dei giudici del contenzioso amministrativo non corrisponde una valutazione imparziale in ordine ai giudizi che coinvolgano l’esercizio del potere pubblico.

Il secondo capitolo, “Mutevoli equilibri storici tra legalità e discrezionalità” indaga l’evoluzione storico-giuridica della contrapposizione tra la discrezionalità tradizionalmente riconosciuta in capo all’apparato amministrativo del Sovrano e la legge, quale volontà legislativa promanante dal Popolo per il tramite dei suoi rappresentanti in Parlamento.

L’Autore evidenzia come il canone generale dei rapporti tra discrezionalità amministrativa e legge sia storicamente fondato, ancora nell’Ottocento, sulla sostanziale preminenza della prima, potendo questa, in mancanza del “metro legale”, colmare vuoti di disciplina e aporie lasciate dalla fonte legislativa.

Il lento mutamento di prospettiva che conduce a una sempre maggiore pervasività della disciplina legislativa rispetto al “non diritto” delle gerarchie amministrative è testimoniato – all’inizio del XX Secolo – dal graduale superamento della concezione della riserva di legge (“Vorbehalt des Gesetzes”) come regolamentazione riservata alla disciplina legislativa soltanto per particolari e specifiche materie, al di fuori delle quali permane la discrezionalità libera dell’apparato amministrativo.

Le critiche alla dottrina del “freies Ermessen” mosse in particolare dalla Scuola di Vienna riqualificano il ruolo della legge rispetto all’attività dell’amministrazione pubblica, identificando il principio di legalità alla stregua di “primato della legge” (“Vorrang des Gesetzes”) e capovolgendo così i tradizionali rapporti sistematici tra potere amministrativo e potere legislativo in favore di quest’ultimo, che viene pertanto “posto a fondamento di ogni possibile esercizio del potere amministrativo”.

Da questo momento in poi, è dunque la legge a stabilire possibilità e limiti alla discrezionalità dell’amministrazione, ponendo un argine all’arbitrio di quest’ultima attraverso la previsione di una maggiore o minore flessibilità nel perseguimento del pubblico interesse.

L’Autore concentra l’attenzione, quasi a rimarcare la non del tutto sopita vitalità degli schemi antichi, su alcuni residui del tradizionale equilibrio amministrazione-legislazione tipico dell’assolutismo ancora oggi parte della disciplina vigente: i regolamenti indipendenti e gli atti politici.

Il terzo capitolo, “Tutela giuridica dei diritti e degli interessi nelle diverse esperienze storiche” costituisce, in buona misura, il perno centrale della trattazione o, meglio, il cardine argomentativo in cui il percorso logico “legge-amministrazione-giudice” viene definitivamente delineato attraverso l’analisi comparata delle esperienze nazionali che hanno condotto all’affermazione di tribunali ordinari per le controversie in cui si facesse questione di diritti o all’istituzione di giudici speciali (amministrativi) che, pur salvaguardando i diritti dei privati, fossero dotati una peculiare sensibilità per le “cose amministrative”.

Com’è noto, la soluzione adottata dal legislatore italiano con la legge 22 marzo 1865, n. 2248, allegato E prevede la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie attinenti a “diritti civili e politici”, rimanendo gli “affari non compresi” affidati alle cure dell’amministrazione per il tramite della tutela giustiziale.

In considerazione delle gravi aporie del sistema di garanzia fondato sul “giudice unico”, il legislatore interviene, dopo soltanto ventiquattro anni, con l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge 31 marzo 1889, n. 5992) con compiti giurisdizionali. La nuova normativa costituisce, come ben esplicitato dall’Autore, un tassello importante, seppur non definitivo, nella costruzione di una via tutta italiana a un sistema compiuto di giustizia amministrativa.

Con la riforma del 1907, l’ordinamento italiano comincia ad allontanarsi dal “mito del giudice unico” che, secondo la ricostruzione dell’Autore, conduce all’emersione della figura dell’interesse legittimo e alla progressiva istituzione di un sistema di doppia giurisdizione (ordinaria e amministrativa) caratterizzata da tratti atipici rispetto alle soluzioni adottate da altri Stati europei (Germania e Francia). A tali peculiarità corrisponde, oggi, un ampliamento dello spettro di tutela – fondato sull’asse diritto/interesse legittimo (risarcibile) – che accorda una tutela giurisdizionale tendenzialmente completa, anche se raffrontata al sistema vigente presso altri ordinamenti (in particolare, si richiama il sistema tedesco, ancora in buona misura fondato sul criterio dello scopo o dell’intento di tutela della disposizione normativa, tale cioè da escludere la protezione della posizione giuridica del privato qualora si controverta su una disposizione il cui fine sia la tutela del pubblico interesse e non quello del soggetto inciso dal provvedimento).

Il quarto capitolo, “Sindacato giurisdizionale fra discrezionalità amministrativa e indeterminatezza della norma” tratta l’emersione e lo sviluppo storico dell’eccesso di potere, inteso inizialmente quale straripamento del potere attribuito all’amministrazione e poi qualificato, anche sulla scorta dell’esperienza francese, alla stregua di un uso illogico, irrazionale, contraddittorio e, in definitiva, ingiusto del potere da parte dell’amministrazione stessa.

Muovendo dalla (equivoca?) ampiezza sistematica dell’istituto dell’eccesso di potere, l’Autore analizza con ricchezza di spunti argomentativi come i concetti di discrezionalità “pura” e “tecnica” influiscano sugli equilibri tra potere amministrativo e potere giurisdizionale, dimostrando come l’operatività del margine di scelta (ponderazione di interessi o apprezzamento tecnico) in capo all’amministrazione derivi dall’indeterminatezza della disposizione normativa di riferimento quanto alla qualificazione delle premesse di fatto e alle concrete modalità di perseguimento dell’interesse pubblico.

Invero, proprio dal rapporto “irrisolto” tra dettato legislativo e azione pubblica discende il problema – aperto e ineliminabile – del ruolo del giudice amministrativo, stretto tra il tradizionale esame di legittimità, cui appartiene anche l’eccesso di potere, e una spinta garantistica verso un controllo giurisdizionale più incisivo e capillare.

 Il tema dei limiti all’esercizio della discrezionalità amministrativa costituisce – è questa la tesi esposta nella monografia in commento – il vero banco di prova dei mutati rapporti tra amministrazione e giurisdizione nel XXI Secolo. Attraverso modalità di controllo giurisdizionale parzialmente nuove o profondamente riadattate agli schemi giuridici della modernità, l’applicazione dei principi generali e delle leggi da parte del potere amministrativo viene sottoposta a un vaglio che va ridefinendosi nel senso dell’imposizione di nuove coordinate “con le quali tracciare correttamente i limiti all’esercizio della discrezionalità amministrativa”.

Il quinto capitolo, “Ultima tappa evolutiva del potere amministrativo. Rapporto tra valore dell’individuo e valore della collettività in termini di proporzione” illustra, appunto, le linee tendenziali sulle quali il rapporto trilaterale legge-amministrazione-giudice si trasfigura, mediante l’applicazione di canoni diversi dal tradizionale vaglio di legittimità costituito, in particolare, dall’eccesso di potere.

Tale mutamento di prospettiva si realizza, quanto all’ordinamento italiano, con l’inserimento nel corpo della legge 7 agosto 1990, n. 241 del richiamo ai principi generali del diritto comunitario, significativamente posti a base del procedimento amministrativo. Come rileva l’Autore, tuttavia, a una siffatta revisione sostanziale dell’assetto dei parametri generali dell’azione pubblica, corrisponde – con l’avvento del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (“Codice del processo amministrativo”) – un ampliamento della batteria di mezzi istruttori a disposizione del giudice amministrativo, indipendentemente dal tipo di giurisdizione puntualmente esercitata.

Alla luce del cennato “vento riformatore” spirato di recente, la discrezionalità attribuita al potere pubblico può essere dunque vagliata da strumenti giuridici che ne permettono una più sicura qualificazione, nel senso della rispondenza o meno della misura amministrativa adottata rispetto alla situazione fattuale e giuridica di riferimento: paradigmatica è l’emersione, prima nel diritto tedesco e poi in quello italiano, per il tramite dell’ordinamento europeo, del principio di proporzionalità.

Nel corso della trattazione, l’Autore inquadra le differenze sistematiche, strutturali e applicative tra l’esame della legittimità di un provvedimento mediante la figura dell’eccesso di potere e quello, più penetrante, svolto sulla base del canone di proporzionalità. Quest’ultimo, infatti, a differenza del più tradizionale eccesso di potere, è bivalente (applicabile tanto a monte, quanto a valle del provvedimento, da parte dell’amministrazione prima e, poi, dal giudice) ed eziologico (costituendo un metodo di determinazione sistematica della fattispecie, tanto in sede amministrativa, quanto – ex post – in quella processuale).

Concludono la rilevazione un’analisi del fondamento costituzionale del principio di proporzionalità e una riflessione circa la fondamentale alterità logica del canone in disamina, qualificato alla stregua di un metodo (perciò stesso neutrale) di misurazione pura, declinato secondo il noto esame trifasico dell’idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto, rispetto al parametro della “ragionevolezza”, fondato su un concetto di “ragione” caratterizzato da una intrinseca e ineliminabile parzialità.

Recensione a cura di Alberto Buonfino