Il Digital divide frena lo sviluppo e crea disuguaglianza sociale

23.05.2014

a cura di Luciano Monti

Intervento* al convegno “Comuni 2020 – Digital Divide e mobilità. Spunti per nuove soluzioni di sviluppo territoriale”*

Oggi quanto mai le specificità delle singole realtà locali emergono con mag­giore rilievo. La attuale fase recessiva, invero, implacabile cartina tornasole, ha messo e mette in rilievo i punti di debolezza dei sistemi economici e sociali locali, in particolare quelli che soffrono di perifericità rispetto ai maggiori centri di interesse del paese. Punti di debolezza che non solo ostacolano una ripresa, ma approfondiscono le cicatrici che questa recessione sta procurando a vasti ambiti del tessuto economico e sociale, da quello imprenditoriale (con la moria delle piccole e microimprese) a quello di ampie fasce di popolazione (giovani inoccupati, disoccupati di lunga durata, scoraggiati, nuovi poveri).

In questa congiuntura negativa (ma forse anche fase di transizione e punto di partenza per l’affermazione di nuovi paradigmi non basati su assiomi pro­duttivi e carriere tradizionali), la rivoluzione digitale offre una formidabile piattaforma per trasformare una criticità in opportunità.

Modelli basati su economie di rete, dislocate in luoghi lontani dai grandi centri congestionati, dimostrano come nuove forme di sviluppo possono es­sere concepite proprio in realtà solo apparentemente considerate non com­petitive. Se ovviamente per numerose attività industriali, in particolar modo manifatturiere, la vicinanza di interporti e altre strutture di logistica sono ancora (per ora) essenziali, per la grande maggioranza delle attività sviluppa­te dalle imprese del terziario avanzato, del commercio e dei servizi finanziari, il Genius loci va accompagnato da un buon terminale telematico, in grado di veicolare prodotti, ma soprattutto conoscenza, da un capo all’altro della rete.

Conoscenza che presuppone due condizioni tra loro interrelate, cioè la forma e il contenuto. La forma è rappresentata dalla rete, senza la quale il messaggio e i relativi dati e informazioni in esso contenuti non possono essere veicolati; il conte­nuto a sua volta presuppone una capacità di produrlo e una capacità di fru­irne. Queste due ultime accezioni (produzione e fruizione) attengono a quella che viene definita l’alfabetizzazione digitale.

Nell’opinione corrente, senza forma (un po’ come senza la penna) non è possibile, anzi è inutile, andare a cercare i contenuti (lo scritto, rimanendo nella metafora). In questo lavoro[1], che ha preso spunto dall’indagine svolta nei mesi di giu­gno e luglio 2014 in alcuni comuni del reatino, in maggioranza dislocati in quelle che sono state definite le Aree Interne in digital divide, per una volta si è deciso di non dare nulla per pre­supposto e, dunque, di dare rilievo prioritario al grado di alfabetizzazione anche in questi territori, “marchiati” dalla Commissione europea come Aree Bianche, cioè non solo sprovviste di una rete telematica capillare, ma addirit­tura senza investimenti e progetti cantierati per realizzarla.

Le sorprese, come si è visto dai risultati dell’indagine, sono state due, una forse attesa e l’altra inaspettata. Quella attesa è che le Aree Bianche censite dalla Commissione europea e dalle nostre autorità nazionali sono assai più vaste di quanto ci dicono gli studi messi a disposizione dai principali pro­vider; una circostanza, questa, determinata dalla presenza di fibre ottiche spesso “spente”, perché non affidate in gestione o perché non attivate da promozioni sui potenziali utenti (perché troppo poco numerosi a giudizio dei gestori della rete stessa). La seconda, che poi ha fornito il là alla raccolta di contributi “a valle” dell’indagine, è stata quella della rilevazione sul campo di alti e in talune realtà altissimi indici di alfabetizzazione della popolazione attiva residente nei comuni delle quattro Comunità Montane.

Questo dato, che naturalmente andrebbe validato da altre indagini con­dotte con il medesimo livello di approfondimento anche in altre realtà locali similari, ha condotto ad alcune ulteriori riflessioni sull’importanza della digitalizzazione di numero­se componenti, o meglio di sfere, della vita quotidiana dei cittadini che han­no la sfortuna (ma dal loro punto di vista, spesso e secondo i modelli delle economie di rete, una fortuna) di vivere e operare in realtà, per così dire, con presenza di forte capitale naturale. Sfere che vanno dall’attività ricreativa e relazionale a quella prevalente lavorativa, transitando per quella educativa e quella di relazione con le istituzioni.

Gli spunti emersi convergono tutti sulla consapevolezza che soltanto in presenza di strumentazioni abilitanti è possibile concepire uno sviluppo so­stenibile non solo sul piano ambientale, ma anche su quello generazionale, e uno sviluppo realmente e autenticamente inclusivo. La sostenibilità genera­zionale rileva in particolar modo quando si scopre (e non poteva essere altri­menti) che le nuove professioni e opportunità di lavoro nell’ambito digitale (dalle piattaforme per le informazioni sul turismo responsabile all’acquisto online di beni e servizi) sono quelle maggiormente alla portata delle giovani generazioni. L’inclusione rileva, invece, nella dimensione che abbiamo defi­nito estensiva del digital divide, quando la corsa verso l’introduzione di una banda ultralarga, in grado di trasmettere mole di dati in modo sempre più veloce e completo, rischia di tracciare un solco invalicabile tra coloro che potranno farvi ricorso e coloro che ne resteranno esclusi. In questa chiave sono così stati letti fenomeni socio economici come lo spo­polamento delle aree rurali, la desertificazione imprenditoriale e la lontanan­za della pubblica amministrazione dal cittadino. Non si tratta naturalmente ancora di soluzioni a problemi spesso sin troppo noti, ma di un approccio realistico al problema del digital divide come fenomeno da non sottovalutare e che non può essere considerato superato arrestandosi alla lettura di un dato statistico regionale o alla rilevazione materiale dei chilometri di fibra ottica posizionata in un dato territorio.

Le difficoltà emerse nelle varie analisi sono riconducibili da un lato alla im­possibilità di poter contare su un set di dati come quelli raccolti nell’indagine reatina, dall’altro dalla obiettiva difficoltà a stabilire le relazioni di causa effetto tra il digital divide e gli altri fenomeni passati in rassegna. Fenomeni che, come la disoccupazione, per comprenderne la relazione con il digital divide, non possono essere presi in considerazione senza uno sguardo al caso dei Neet nel suo complesso. Per questo è assai più significativa la correlazio­ne tra il basso tasso di occupazione in talune Aree Interne e il digital divide. In particolare nel Nord e nel Centro Italia.

Altrettanto difficoltoso è cogliere la relazione tra lo spopolamento e il di­gital divide: cosa è causa di cosa? Lo spopolamento, che interessa soprat­tutto le fasce giovanili, è certamente causa di un calo della alfabetizzazione digitale. Per converso è innegabile, però, che un progressivo spopolamento determini le condizioni per il fallimento del mercato delle TLC in quella de­terminata area e quindi la non economicità della piattaforma digitale basica.

Ancora più difficile è fissare una precisa correlazione tra l’e-government e il principale (anche se non più tanto veritiero) indicatore della crescita econo­mica, cioè il Pil. Anche qui rimane irrisolta la questione se sia la contrazione del Pil a determinare minori investimenti informativi nella PA e dunque una più lenta attuazione della Agenda Digitale oppure se è il digital divide nelle relazioni con le istituzioni a costituire uno dei freni alla crescita.

Quello che con certezza può essere affermato in questa sede è che la do­manda di maggiori piattaforme nelle Aree Interne del paese è innegabile e rappresenta una vera e realistica alternativa al fallimento delle grandi opere che avrebbero potuto assicurare maggiore mobilità in questi territori.

Dunque, solo cogliendo la domanda inevasa di prossimità espressa da co­munità spesso statisticamente (e politicamente) poco significative sarà possi­bile anticipare consapevolmente un futuro poi non tanto lontano, nel quale i fuochi di un nuovo rinascimento potrebbero illuminare per prime proprio queste realtà oggi considerate periferiche o “interne”. Non anticipare queste tendenze, non dare seguito a queste aspettative, potrebbe condurre il nostro paese a una maggiore marginalizzazione e a un ruolo sempre più da compri­mario nell’economia mondiale della conoscenza. Economia che non transita solo nei luoghi ad alta concentrazione di capitale umano, ma anche nelle aree con alto capitale naturale e culturale, spesso non coincidenti con le prime. Capitale, quello naturale e culturale, che va non solo valorizzato (grazie ai nuovi strumenti e piattaforme digitali che stanno spesso alla base dei prin­cipali modelli di economia della cultura), ma anche presidiato dallo Stato e dalle sue emanazioni (tramite l’e-government). Stato che grazie a questi nuovi, ma oramai consolidati, strumenti digitali può imparare a “leggere” meglio i territori amministrati, contrastando quella visione spesso troppo eu­rocentrica che vorrebbe imporre Bruxelles. Quest’ultima è tuttora ancorata all’ideale della convergenza dei paesi dell’Unione, le cui basi teoriche oramai da più parti sono state messe in discussione, così come l’efficacia di azioni eterocorrettive tecnocratiche e diffusioniste non affiancate da importanti ed adeguati piani di eterocompensazione. Una eterocompensazione soprattutto in termini di migliori e più diffuse reti digitali.


* Estratto dell’intervento riprodotto in Monti L. (a cura di ), Indagine Digital Divide e mobilità. Spunti per nuove soluzioni di sviluppo territoriale,  Alter Ego, Viterbo 2014.

** Il convegno si è tenuto l’11 dicembre 2014 a Roma, presso la LUISS Guido Carli

[1] Monti L. (a cura di), cit.

Alessandroa.baroni