Corte Cost n.310/2013 – “Figli e figliastri”: breve commento alla sentenza sui blocchi stipendiali del professori universitari

07.05.2014

SOMMARIO: 1. la disarticolazione del sistema retributivo nel pubblico impiego. 2. la disarticolazione del mondo accademico.

  

1. La disarticolazione del sistema retributivo nel pubblico impiego. Con la sentenza n. 310, depositata il 17 dicembre 2013, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sui c.d. blocchi stipendiali riguardanti i professori universitari, ritenendo altresì non applicabili i principi affermati dalla stessa Corte con la precedente sent. n. 223 del 2012, che aveva, al contrario, dichiarato l’illegittimità costituzionale dello stesso decreto legge, nella parte in cui si riferiva al blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo per i magistrati, dovendo tale sentenza essere “ricondotta alle specificità dell’ordinamento della magistratura”.

Ora, nessuno ignora il principio, sempre ribadito dalla Corte (sent. n. 1/1978; n. 238/1990; n. 42/1993), per cui il trattamento economico dei magistrati non sarebbe nella libera disponibilità del potere, legislativo o a maggior ragione del potere esecutivo, trattandosi di un aspetto essenziale dell’attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza, cioè di una “guarentigia” (sent. Corte cost. n. 42/1993 e ord. nn. 137 e 346 del 2008)… Peccato, però, che quella stessa sentenza – che oggi la Corte ritiene non applicabile ai professori e ricercatori universitari – abbia dichiarato costituzionalmente illegittima anche la disposizione che riduceva – del 5% per la parte eccedente i 90.000 euro e del 10% per la parte eccedente 150.000 euro – il trattamento economico della dirigenza pubblica, “estendendo” a questa il regime previsto per i magistrati (con un singolare rovesciamento del percorso fatto quando il trattamento stipendiale dei magistrati era stato “agganciato” e quello dell’alta dirigenza).

Il fatto che, oggi, la Corte cambi orientamento sulla vicenda dei blocchi sembra avere, allora, poco a che fare con il diritto – posto che i motivi di illegittimità, a ben guardare, sono gli stessi in entrambi i casi e, semmai, per gli universitari ancora più gravi, date le differenze di situazioni anche all’interno della stessa categoria, di cui il legislatore non ha tenuto conto, penalizzando i più deboli (i giovani ricercatori) – e molto con ragioni di ordine squisitamente “politico”.

 

2. La disarticolazione del mondo accademico. La verità è che si tratta di una sentenza che fa emergere con tutta evidenza la debolezza del mondo accademico e le sue spaccature, tali da far ritenere, anche alla Corte, di poter incidere su un corpo “molle”, senza tema di serie reazioni.

Non si tratta, infatti, dell’entità dei costi e del loro impatto sul bilancio pubblico: i magistrati sono circa diecimila e i professori universitari dieci volte tanti ma è appena il caso di dire che, fin dai primi anni ’90, gli stipendi di questi ultimi sono stati sganciati da quelli dei magistrati – e di questo bisognerebbe anche tornare a discutere se si vuole davvero restituire dignità e qualità al sistema -, sicché alla fine il peso complessivo dei tagli avrebbe finito per equivalersi e neanche (solo) di specialità di regime, come sostiene la Corte, che punta oggi sulle garanzie costituzionali dell’indipendenza della magistratura e dunque sulle differenze piuttosto che sui tratti comuni delle categorie c.d. non contrattualizzate, ma di autoconsapevolezza e di organizzazione dei diversi corpi dello Stato: i magistrati, giustamente, si muovono come un solo uomo non appena li si tocca mentre i professori balbettano, si scusano di esistere e sono i primi a considerarsi figli della colpa (di svolgere un mestiere che, per farlo, sarebbero disposti a pagare), collaborando alla disarticolazione del sistema pubblico di istruzione superiore e ricerca scientifica, vero obiettivo (sembra) di molti degli interventi che lo hanno riguardato negli ultimi anni.

Basti pensare alla progressiva burocratizzazione dell’Università[1], a cominciare dai “crediti”, passando per un sistema di valutazione alla cui validazione i professori contribuiscono in maniera autolesionistica ogni giorno, fino alla verticalizzazione della c.d. “governance”, alla stregua di un pensiero unico metodologico-quantitativo volto all’omologazione dei percorsi formativi e della ricerca[2].

Non casualmente la sentenza coglie al volo, anche per motivare il discostarsi dal proprio precedente – che rischia peraltro di essere vanificato anche da questa decisione, dal momento che gli adeguamenti stipendiali dei magistrati sono collegati alla media degli aumenti previsti per gli altri dipendenti pubblici -, il punto della legge 240/10 (c.d. Gelmini) relativo alle valutazioni ancorate al merito per il riconoscimento degli scatti, facendo riferimento  all’ANVUR, alla VQR (sistema di valutazione della ricerca), etc., che gli stessi giudici della Consulta – a iniziare da Sabino Cassese – pure hanno, in diverse occasioni, aspramente criticato[3] … 

Se, almeno, la decisione della Corte servisse al mondo dell’Università e della ricerca per prendere coscienza del proprio ruolo e discutere sulle c.d. riforme che su di esso si sono abbattute negli ultimi anni, sulla questione del merito, sulla decurtazione delle risorse e sulla distribuzione dei fondi in relazione alla c.d. eccellenza , il male (giuridico, prima che economico) da essa portato non sarà venuto solo per nuocere.

P.s.: ho “rubato” il titolo a una nota Rivista giuridica online, che, alle 8 del mattino del 18 dicembre, intitolava così la notizia della sentenza. Qualche ora più tardi, quel titolo veniva sostituito da un più neutro: “Legittimo il blocco degli stipendi dei professori universitari”… anche questo è un segno!



* Prof. di diritto pubblico – Politecnico di Milano.

[1] V. G. Salmieri, “Moriremo di burocrazia?”. Lettera aperta al ministro Carrozza, in “il Sussidiario.net”, 11 giugno 2013.

[2] Sul punto, la severa critica di G. Di Gaspare, Università, scienza, burocrazia, in Aperta contrada del 24 settembre 2013.

[3] S. Cassese, “L’Anvur ha ucciso la valutazione. Viva la valutazione”, Relazione all’incontro promosso da Roars su “Il sistema dell’Università e della Ricerca. Fatti leggende futuro”, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 15 novembre 2012.

di Maria Agostina Cabiddu*