Le riforme istituzionali: i nodi da sciogliere

28.05.2013

Roma, 20 settembre 2013, Università Luiss “Guido Carli

Il 20 settembre 2013,  presso l’Università Luiss “Guido Carli”, si è svolto un convegno avente ad oggetto “le riforme istituzionali: i nodi da sciogliere”, nel corso del quale si è dibattuto sulle risultanze della Commissione per le riforme costituzionali presieduta dal Ministro Quagliariello.

Dalle relazioni esposte è emersa una sostanziale convergenza circa l’esigenza di intervenire sulle principali storture del sistema in vigore, quali il bicameralismo perfetto, la legge elettorale, l’articolazione dei rapporti tra Stato ed enti territoriali ai sensi del Titolo V della Costituzione, giungendo ad indicare un modello di forma di governo a guida del Primo Ministro ed una legge elettorale a doppio turno di coalizione.

Nell’introdurre l’incontro, il Prof. Leonardo Morlino ha sintetizzato i principali contenuti dell’indirizzo di saluto del Rettore dell’Università Luiss “Guido Carli”, Prof. Massimo Egidi, secondo il quale il problema centrale dell’Italia non è riferibile “sic et simpliciter” all’andamento dell’economia, bensì alle perduranti criticità del sistema politico-istituzionale, oggetto da circa 30 anni di dibattiti ai vari livelli, su cui hanno inutilmente cercato di provi rimedio ben tre Commissioni Bicamerali, fino alla Commissione dei Saggi ed al Comitato interparlamentare che proprio in questi giorni hanno ultimato i lavori.

Nella prima sessione concernente “le forme di governo”, il Vice-Presidente emerito della Corte Costituzionale Enzo Cheli ha sottolineato come le proposte emerse in sede di Commissione abbiano preso spunto da alcune considerazioni di fondo. Innanzitutto, la Costituzione repubblicana ha indubbiamente consentito di raggiungere importanti risultati che, tuttavia, oggi rischiano di essere vanificati dall’ “impasse” sulle riforme; inoltre, nell’attuale crisi economica l’Italia si è ritrovata in una posizione di debolezza più degli altri Paesi per le sue criticità istituzionali, che sono state a loro volta aggravate dai riflessi del comportamento dei partiti politici sulla stabilità di governo.

Date queste premesse, la Commissione ha tentato di delineare possibili soluzioni per cercare di rivitalizzare il sistema dei partiti, nel quadro di un parlamentarismo razionalizzato, e rafforzare il quadro istituzionale anche con la previsione di nuove forme di democrazia diretta.

Nel suo intervento su “forme di governo e qualità della democrazia”, il Prof. Leonardo Morlino ha evidenziato come, al di là degli schemi teorici in materia, di fatto le forme di governo tendono a caratterizzarsi, nella realtà, diversamente dai presupposti istituzionali che dovrebbero contraddistinguerli.

Nel caso specifico dei sistemi semi-presidenziali (spiccatamente in Portogallo e Finlandia) il potere esecutivo -formalmente diviso tra il Presidente della Repubblica ed il Presidente del Consiglio- tende ad essere monopolizzato da quest’ultimo, come effetto della strutturazione di maggioranze parlamentari con forte leadership. Pertanto, pur presentando intrinseci caratteri di instabilità, nel tempo tali sistemi tendono a stabilizzarsi sul modello dei sistemi parlamentari (eccetto il solo caso della Francia).

Nei regimi presidenziali, in assenza di un sistema bipartitico, si assiste alla definizione di una sorta di “presidenzialismo coalizionale”, tipico ormai degli Stati dell’America Latina, dove contano le “pratiche informali” e le “patronage politics” che li differenziano dal modello statunitense e li avvicinano ai modelli parlamentari.

Secondo Morlino, i parlamentarismi con un ruolo centrale del Premier (c.d. modello del “chancellor democracy”), dove si realizza una fusione tra potere legislativo e potere esecutivo, esprimono leaderhips di governo molto più forti dei sistemi ad elezione diretta del vertice monocratico.

Pertanto, alla ricorrente domanda circa il sistema migliore per ottenere una forte leadership si dovrebbe rispondere proponendo il suddetto modello della “chancellor democracy”, per il quale tuttavia si rende necessaria una legge elettorale che produca una chiara maggioranza di governo.

Il Prof. Marco Olivetti, affrontando il tema concernente “ il governo parlamentare in Italia: le sue degenerazioni ed i correttivi necessari”, ha rimarcato come il percorso delle riforme, al di là delle specifiche proposte, non dovrebbe abbandonare il solco del parlamentarismo. Richiama, al riguardo, il noto ordine del giorno Perassi del 5 settembre 1946 che, come noto, rigettava sia il modello presidenziale che quello direttoriale, pur auspicando che l’adozione del sistema parlamentare potesse tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo.

Il Prof. Olivetti identifica quattro motivi per sostenere tale tesi. Innanzitutto, sussistono ragioni storiche giustificanti il ricorso per l’Italia ad un approccio gradualista sul modello inglese in tema di riforme istituzionali, anziché quello più radicale proprio dell’esperienza francese. Le proposte di modifica dell’architettura istituzionale dovrebbero prendere spunto dalle peculiarità dell’ordinamento nazionale: per questo, è condivisibile la proposta di un regime parlamentare a guida del Premier, la cui figura si è andata notevolmente rafforzando nell’ultimo ventennio con il passaggio dalla c.d. “democrazia consensuale” alla “democrazia maggioritaria”, secondo la nota distinzione introdotta da Lijphart.

In secondo luogo, le origini delle attuali criticità istituzionali possono essere individuate nella necessità di superare l’anomalia prettamente italiana del bicameralismo perfetto, modificare il sistema elettorale (per il quale Olivetti esprime perplessità rispetto alla proposta del doppio turno di lista), restituire capacità decisionale al sistema, nonché realizzare una sorta di riequilibrio nella partecipazione, sia con il referendum che con la c.d. “democrazia digitale”.

In terzo luogo, Olivetti ritiene indispensabile mantenere il parlamentarismo per evitare i rischi insiti sia nel semi-presidenzialismo francese (quali l’eccessiva concentrazione del potere ed il deficit di responsabilità del Presidente della Repubblica) che nel presidenzialismo (mancando tale sistema di mezzi di risoluzione degli eventuali conflitti tra Presidente ed Assemblea, a meno che lo stesso non si “parlamentarizzi”, come ipotizzato nel precedente intervento del Prof. Morlino).

Infine, appare opportuno dare vita ad un sistema equilibrato, nel quadro di un modello costituzionale “misto” che guardi più a Berlino anziché a Londra, anche per il rendimento offerto dal sistema tedesco sia sotto l’aspetto politico-istituzionale che per la capacità di assicurare un elevato standard di benessere ai suoi cittadini.

Nella seconda sessione, incentrata sull’argomento “dalla forma di governo alle regole elettorali”, il Prof. Roberto D’Alimonte ha affrontato il tema su “il nuovo sistema elettorale: collegi uninominali o doppio turno di lista?”.

Atteso che l’attuale sistema partitico è caratterizzato da alta frammentazione e marcata “volatilità elettorale”, si rende necessario scegliere un sistema elettorale in grado di trasformare la minoranza più grande in termini di voti in una maggioranza assoluta in seggi, al fine di assicurare un “minimo” di governabilità.

In sintesi, l’Italia ha bisogno di quella “disproporzionalità” che gli altri Paesi europei hanno già realizzato da tempo mediante specifiche formule elettorali (eccetto la sola Germania, che infatti si appresta, secondo D’Alimonte, a dare vita ad una “grande coalizione”). Mentre in Gran Bretagna ciò avviene con i collegi uninominali ed in Spagna mediante un sistema proporzionale con piccole circoscrizioni, nel caso italiano si tratterebbe di perseguire tale obiettivo rimodulando opportunamente il meccanismo del premio di maggioranza attualmente vigente.

Il Prof. D’Alimonte ritiene che la scelta del sistema elettorale debba ricadere su quello in grado di ottenere il più ampio consenso tra i partiti, date le attuali condizioni politiche che vedono la destra contraria ai collegi uninominali senza l’elezione diretta del Capo dello Stato (e, pertanto, anche al mero ripristino della c.d. “legge Mattarella”) e la sinistra divisa la suo interno su tale binomio uninominale-presidenzialismo ed avversa, in prevalenza, all’abbandono del parlamentarismo.

Tuttavia, D’Alimonte si interroga sulla refrattarietà della destra all’uninominale, ritenendone condivisibili solo alcune delle ragioni di fondo.

Dalla disamina dei risultati elettorali del 1996 e del 2001 (entrambe svoltesi, come noto, in vigenza della c.d. “legge Mattarella”) emerge come la destra abbia avuto in entrambe le competizioni meno voti (circa un milione e mezzo) nella quota maggioritaria rispetto a quella proporzionale: suffragi, questi, che avrebbero consentito allo schieramento di Berlusconi di vincere nel 1996 (invertendo il risultato che, come noto, vide la vittoria dell’Ulivo di Prodi) e nel 2001 di rinforzare la maggioranza dei seggi arrivando a sfiorare i 2/3.

Di contro, nel 2001, nonostante ci sia stata quasi una parità nei voti ottenuti complessivamente nei collegi uninominali tra destra e sinistra (circa un punto percentuale di differenza), in termini di seggi la Casa della Libertà ha ottenuto il 20% in più di seggi: secondo D’Alimonte, ciò si spiega con il fatto che il cattivo “rendimento coalizionale” della destra viene compensato da una “distribuzione territoriale del voto” che la favorisce rispetto alla sinistra.

Ulteriore paradosso è che nel 2006, in confronto al 2001, la citata “distribuzione territoriale del voto” per la CdL non è mutata, eppure ciò ha determinato una sconfitta per Berlusconi, proprio a causa della scelta della proporzionale al posto del sistema uninominale.

Secondo D’Alimonte, per l’Italia si potrebbe adottare il modello spagnolo con piccole circoscrizioni che, unitamente ad una soglia di sbarramento, potrebbe favorire la formazione di un sistema bipolare: tuttavia, tale proposta sarebbe avversata dai piccoli partiti e dispiegherebbe i suoi effetti solo nel medio termine. Pertanto, si potrebbe prefigurare, in alternativa, un “modello italiano” di legge elettorale, integrando il sistema vigente con un secondo turno per l’assegnazione del premio qualora al primo turno nessun partito/coalizione raggiunga una soglia predefinita (40% o 50% dei voti): in tal modo si garantirebbe un esito decisivo al voto, nonché una sufficiente legittimazione al vincitore.

Altre novità potrebbero consistere nella reintroduzione del voto di preferenza, con piccole circoscrizioni e doppia indicazione dei candidati da parte dell’elettore (la seconda di genere diverso rispetto alla prima), nonché di soglie di sbarramento non solo per l’accesso al riparto dei seggi ma anche per il conteggio dei voti necessari per l’attribuzione del premio. Sarebbe auspicabile anche abolire l’indicazione del candidato Premier, ritenuta da D’Alimonte ambigua, inutile e foriera di irrigidire eccessivamente il sistema.

In fondo, una proposta così formulata si porrebbe nel solco di quanto già previsto a livello locale, consentendo peraltro di eleggere direttamente il Primo Ministro a Costituzione vigente senza intaccare la flessibilità del regime parlamentare e l’identità delle formazioni politiche minori.

Il Prof. Augusto Barbera, intervenendo su “doppi turni e forma di governo”, ha rimarcato il collegamento tra regole elettorali e forma di governo, come dimostrato dall’incidenza che vi ha avuto il passaggio al sistema uninominale nei primi anni ‘90.

In sede di Commissione è stata trovata una soluzione intermedia, in linea con quella enunciata da D’Alimonte, tale da mettere in luce al primo turno se la proporzionale è in grado di indicare da subito una maggioranza di governo (cioè esiste un partito/alleanza che ottiene almeno il 50% dei seggi) e facendo seguire, in caso contrario, il ballottaggio tra le due coalizioni più votate.

Tale progetto determina inevitabilmente ricadute sulla forma di governo, in quanto il Presidente del Consiglio, così investito dagli elettori quale capo della coalizione vincente, deve essere destinatario di poteri reali, quale la nomina e revoca dei ministri, nonché avere la capacità di provocare lo scioglimento delle Camere, analogamente a quanto già avviene in Spagna, Germania e, di fatto, anche in Gran Bretagna. Secondo Barbera, per controbilanciare siffatto potere bisogna anche prevedere il voto di sfiducia costruttiva da parte del Parlamento.

Riprendendo l’espressione usata da D’Alimonte nel suo intervento, condivide la necessità di attribuire alla minoranza più forte la maggioranza assoluta dei seggi, motivandolo sia per quanto affermato da Duverger -secondo il quale il sistema elettorale non deve “fotografare” il quadro politico ma deve agire per trasformarlo- sia per ragioni di praticità, cioè per evitare la tendenza a dare vita alle “grandi coalizioni” che l’attuale situazione dei rapporti di forza tra i partiti rischia di rendere inevitabile.

Barbera sostiene l’opportunità di introdurre una legge con i collegi uninominali a doppio turno, in quanto consente un maggiore radicamento dei candidati nel territorio di elezione e affida direttamente all’elettore la scelta delle alleanze. Peraltro, non nasconde le problematiche che siffatto sistema ha creato in passato, specie in assenza di partiti forti o di una qualche forma di unificazione a carattere nazionale che ha portato a deleteri fenomeni di localismo, come avvenuto in Italia nel periodo 1848-1919.

Nelle attuali condizioni politiche, con partiti scarsamente strutturati, servirebbe pertanto un’elezione nazionale quale l’investitura diretta del Presidente della Repubblica: il problema è che oggi non ci sono i presupposti per introdurre un sistema analogo a quello della V Repubblica francese, motivo per cui la Commissione si è orientata sul modello del governo del Primo Ministro.

Nel condividere la proposta di D’Alimonte -quale quella possibile, appunto, alle condizioni attuali- Barbera compie tuttavia alcuni distinguo: in presenza di un sistema politico (almeno) tripartitico c’è il rischio che le due formazioni politiche in grado di arrivare all’eventuale ballottaggio alla Camera siano diverse da quelle che possono giungervi al Senato (anche per il differente elettorato passivo previsto per le due Assemblee).

Esprime inoltre la sua netta contrarietà alle preferenze che potrebbero portare alla definitiva “implosione” dei partiti a seguito dell’inevitabile formazione di comitati elettorali e di mini-partiti a sostegno di ciascun candidato, con conseguente moltiplicazione delle spese; per questo, Barbera propone un correttivo alla formula proposta da D’Alimonte, prevedendo al primo turno un sistema misto uninominale-proporzionale, senza possibilità di esprimere voti di preferenza, come già era stato ipotizzato nel 1997 nel c.d. “accordo a casa Letta”.

Nel suo intervento su “legge elettorale e regolamenti parlamentari”, il Prof. Nicola Lupo ha evidenziato la particolarità dell’attuale momento storico, nel quale la risposta europea alla crisi economico-finanziaria si è sviluppata su un piano prettamente intergovernativo: circostanza, questa, che rendendo gli esecutivi nazionali i diretti interlocutori delle strategie di intervento ha ulteriormente messo in risalto la debolezza delle istituzioni italiane. A ciò fa da contraltare, sul piano prettamente interno, il forte cambiamento in atto nel sistema politico, sia con l’entrata in scena del Movimento 5 Stelle che con il tendenziale esaurimento dell’esperienza berlusconiana.

Ciò premesso, Lupo ritiene che la connessione tra la legge elettorale ed i regolamenti parlamentari, pur se apparentemente di pacifica accettazione, non sia ancora avvertita dalla classe politica. Mentre la disciplina d’Assemblea non è stata oggetto di riforme di rilievo, nonostante il passaggio al sistema maggioritario e la radicale trasformazione del quadro politico di riferimento (eccetto le limitate modificazioni intervenute nel 1997), l’attenzione dei partiti è rimasta concentrata unicamente sulla formula elettorale, peraltro con obiettivi prettamente “contingenti”.

La stessa mancata modifica del “bicameralismo perfetto” ha agito da “tappo” alle riforme istituzionali, fungendo altresì da “alibi” per non adeguare i regolamenti parlamentari alle novità contenute, tra l’altro, nelle leggi costituzionali n. 3/2001 sul Titolo V e n. 1/2012 sul pareggio di bilancio, nonché nel Trattato di Lisbona che, come noto, tende a valorizzare il ruolo in ottica europea dei Parlamenti nazionali (e che gli altri Paesi membri hanno prontamente attuato nell’ordinamento interno). Appare indicativo, al riguardo, l’atteggiamento del Parlamento europeo, che ha invece utilizzato il regolamento d’Assemblea per potenziare il proprio ruolo, anticipando i maggiori poteri che i Trattati gli hanno poi formalmente conferito.

Lupo ritiene necessario superare l’atteggiamento sostanzialmente “conservativo” seguito fino ad oggi dalle Camere a danno del loro ruolo (salvo lo sporadico ricorso a procedure “transitorie”) a favore di un approccio più “propositivo” ed “innovativo”, volto a privilegiare la fase di attuazione delle riforme costituzionali.

Tale dimensione attuativa è stata tenuta nella giusta considerazione dalla stessa Commissione, dove si è discusso della possibile introduzione delle c.d. “leggi organiche”.

Parimenti importante, in chiave attuativa, è l’auspicata disciplina nei regolamenti d’Assemblea, tra gli altri, del procedimento legislativo, dei decreti legge, della mozione di sfiducia costruttiva, della “riserva di codice”, nonché delle modalità di esame delle proposte di iniziativa popolare e delle petizioni come delineate nel corso dei lavori della Commissione. A ciò si affianca la spinta verso la costituzionalizzazione di alcune norme di diritto parlamentare (che potrebbe riguardare, ad esempio, i disegni di legge “a data fissa”), secondo il modello della V Repubblica francese.

Secondo Lupo, negli ultimi anni, a fronte della sostanziale staticità dei regolamenti parlamentari, si è assistito ad una marcata evoluzione del diritto parlamentare, soprattutto a seguito del ricorso sempre più frequente del “precedente” da parte dei Presidenti d’Assemblea, peraltro foriero di deleteri effetti nel senso di determinare una sovraesposizione anche mediatica degli stessi. Essendo avvenuto in un contesto di progressivo accrescimento delle asimmetrie tra le due Camere, ciò ha contribuito ad indebolire la dimensione giuridica delle regole parlamentari a vantaggio di un approccio più prettamente politico.

Pertanto, Lupo ritiene che il mancato adeguamento dei regolamenti parlamentari debba essere affrontato quanto prima, con “coraggio” e “visione”, partendo dalle disposizioni costituzionali già vigenti, dai Trattati europei fino all’art. 5 della legge costituzionale n. 1/2012 sulle nuove competenze parlamentari in materia di finanza pubblica, e tenendo conto anche di quelle novità introdotte con la riforma dei regolamenti parlamentari del 1997 sulle quali si registra la maggiore convergenza tra le forze politiche.

Successivamente, il Prof. Francesco Raniolo ha affrontato il tema concernente “legge elettorale e finanziamento dei partiti”, evidenziando, in premessa, il fatto che i sistemi elettorali debbano essere intesi, in senso lato, come un insieme di leggi e regole che disciplinano la competizione sia tra i partiti che all’interno di essi. Pertanto, oltre alla formula elettorale bisogna prendere in considerazione l’ambiente istituzionale “di contorno”, cui rientra anche il regime del finanziamento dei partiti.

Raniolo concentra l’attenzione su come il finanziamento politico si rapporti, da un lato, con le altre componenti del sistema elettorale, dall’altro, con la competizione politica “tout court”. I nessi con quest’ultima, peraltro, sono sostanzialmente deboli rispetto ai ben più chiari rapporti di causalità con le formule elettorali, poiché viene meno la scelta dell’elettore, e sono vieppiù diventati più “laschi” per effetto della progressiva destrutturazione dei partiti, rendendoli inadeguati a guidare sia le dinamiche politiche che quelle istituzionali.

Da un punto di vista comparativo, le democrazie avanzate si caratterizzano per un regime di finanziamento pubblico ove sono previste forme “associative” di contribuzione, con un concorso cioè da parte delle formazioni politiche alla copertura dei propri costi organizzativi, come in Germania e Francia: a ciò si aggiunge la diffusa “giuridificazione” dei partiti stessi, mediante leggi di inquadramento generale.

Per quanto riguarda invece il caso italiano, si possono ritrovare alcune costanti di fondo nell’evoluzione della specifica materia.

Innanzitutto, sin dagli anni ’70, le disposizioni sono state emanate come reazione a situazioni emergenziali.

Inoltre si è assistito frequentemente a fenomeni di “assestamento-manipolazione”, con ripetuti interventi di modificazione della normativa per ampliare l’ammontare dei sovvenzionamenti pubblici, il tutto senza prevedere obblighi di rendicontazione da parte dei beneficiari.

Infine, nella storia del finanziamento pubblico si ritrovano puntualmente iniziative referendarie volte a cambiare la normativa in vigore: un primo quesito abrogativo è stato presentato nel 1978 con esito negativo, nel 1993 è stato riproposto con successo, mentre il referendum del 2000, concernente la nuova normativa emanata a fine 1993 e modificata negli anni successivi, è risultato non valido per il mancato raggiungimento del quorum.

A seguito della recente crisi finanziaria, morale e politica che ha investito le istituzioni repubblicane, il Parlamento ha approvato la legge n. 96/2012, sempre seguendo una logica di tipo “emergenziale”, che in ogni caso non elimina le criticità delle normative precedenti, come la sostanziale assenza di controlli e sanzioni.

Secondo il Prof. Raniolo, nella normativa sul finanziamento dei partiti tendono a persistere logiche distributive, peraltro in un contesto non più proporzionale, come fosse una sorta di “ultimo baluardo” di resistenza dei partiti sia alle nuove logiche maggioritarie che alle spinte che emergono sempre più forti per un loro rinnovamento interno.

Nella tavola rotonda che è seguita, afferente al tema “i partiti: esiste una soluzione condivisa?”, presieduta da Bruno Manfellotto (direttore della rivista “L’Espresso”), il Ministro Gaetano Quagliariello ha esposto le risultanze della Commissione, soffermandosi, sia pure sommariamente, sui contenuti dei 6 capitoli della Relazione finale.

Con riferimento al bicameralismo perfetto, si è convenuto sull’esigenza di superare tale sistema (per alcuni, arrivando al monocameralismo), differenziando le due Assemblee in modo da configurare la Camera dei Deputati come l’organo più politico, espressione del rapporto fiduciario tra la maggioranza e l’Esecutivo in carica, mentre il Senato diventerebbe un elemento di raccordo tra il legislatore nazionale e quello regionale, con un potere di controllo sull’attività di governo.

Per quanto riguarda il procedimento legislativo, la Commissione ha fatto i passi in avanti più importanti rispetto alle altre tematiche, prevedendone un deciso snellimento, mentre il tema della rivisitazione del Titolo V ha comportato una certa differenziazione delle posizioni in seno alla Commissione.

Al riguardo, sono emerse due linee di intendenza, l’una più propensa a dare vita ad una sorta di neo-centralismo, l’altra più disposta a continuare nella via intrapresa, a sua volta incanalandosi nel solco del federalismo ovvero rimanendo nell’alveo del regionalismo.

Pur nella difficoltà di tenere insieme queste diverse sensibilità, i membri della Commissione hanno comunque concordato sulla necessità di dare vita ad un riparto di competenze più chiaro, incidendo su quella “zona grigia” rappresentata dalle materia di competenza concorrente e trasversale che è stata fonte di continui contenziosi dinanzi alla Corte Costituzionale.

Sulla forma di governo è emersa da più parti l’esigenza fondamentale di “rigenerare i partiti” seppur nel quadro del regime parlamentare in vigore; secondo altri, invece, la “liquidità” assunta dalle formazioni politiche rende necessario porre in essere un’architettura istituzionale che sopperisca a tale criticità. Per questi ultimi, fautori principalmente del semi-presidenzialismo, vale l’esperienza della Francia, dove la V Repubblica creata da De Gaulle contro i partiti ha consentito proprio a questi ultimi di “rigenerarsi”.

Un’altra tesi emersa negli incontri è che non bisogna privarsi, per quanto possibile, di un potere neutro quale quello ricoperto attualmente dal Presidente della Repubblica, ed è pertanto auspicabile un sistema a primazia del Presidente del Consiglio.

Fermo restando il legame tra legge elettorale e forma di governo, è stato convenuto che il semi-presidenzialismo dovrebbe combinarsi con il doppio turno di collegio, mentre il parlamentarismo risulta compatibile sia con la c.d. “legge Mattarella”, con il sistema in vigore in Spagna ovvero con un proporzionale “corretto”; infine, il governo del Primo Ministro richiederebbe un turno eventuale di coalizione, come delineato da D’Alimonte nel suo intervento.

Infine, la Commissione si è soffermata anche sugli aspetti legati alla partecipazione ed alla democrazia diretta, ipotizzando che una proposta di legge di iniziativa popolare possa, in determinate circostanze e salvo specifiche materie (come quella di bilancio), diventare oggetto di un referendum propositivo.

In rappresentanza del Partito democratico, l’On. Vannino Chiti ha rimarcato l’importanza di aver raggiunto delle convergenze in sede di Commissione e che, tuttavia, tali sforzi verrebbero definitivamente vanificati se non si addivenisse in tempi rapidi ad un risultato concreto: vale, al riguardo, il precedente del 2008, quando le principali forze politiche dell’epoca avevano concordato sulla riforma della legge elettorale, poi rimasta inattuata per la caduta del governo Prodi.

L’On. Chiti ha manifestato la sua preferenza per il modello primo-ministeriale che richiede cambiamenti non radicali della Carta (cosa che avverrebbe, ad esempio, se si scegliesse l’opzione semi-presidenziale). Con riferimento al bicameralismo, secondo l’On. Chiti il rapporto fiduciario dovrebbe permanere in capo alla sola Camera dei Deputati, pur tuttavia sarebbe auspicabile mantenere una sorta di “bicameralismo perfetto” su alcune materie, come le riforme costituzionali, la ratifica dei trattati internazionali, le leggi elettorali e la tutela dei diritti umani. I senatori potrebbero essere eletti con legge proporzionale contestualmente al rinnovo dei Consigli regionali, al fine di caratterizzare in senso ancora più “territoriale” la natura del nuovo Senato.

Per quanto riguarda la legge elettorale, sarebbe auspicabile ripristinare la previgente c.d. “legge Mattarella”. Invece, se la riforma elettorale venisse ricollegata alla scelta della forma di governo primo-ministeriale, potrebbe essere accolta la proposta di D’Alimonte senza però prevedere la reintroduzione delle preferenze, che peraltro rappresenterebbero un “unicum” in Europa; in tal caso, infatti, ritiene l’On. Chiti “nel primo turno ci si scannerebbe nei partiti, nel secondo tra i partiti”.

Intervenendo in rappresentanza del “Movimento 5 Stelle”, secondo l’On. Luigi Di Maio la questione centrale è la crisi in atto del sistema dei partiti e della legge, di cui è conferma il fatto che nella legislatura in svolgimento nessuna legge di iniziativa parlamentare è stata finora approvata dalle Assemblee: invertendo l’ordine logico comunemente seguito, i problemi attuali nascono dentro le forze politiche, non originano dal sistema istituzionale.

Sotto questo aspetto, la forma di governo a guida del Premier che ha fatto numerosi proseliti in seno alla Commissione rischia di formalizzare il “Governo che legifera”, esautorando ancora di più il Parlamento ed acuendo, così, la crisi di partecipazione dei cittadini rispetto alla vita politica.

Nelle tempistiche decisionali, il Parlamento appare recessivo rispetto al dinamismo dell’Esecutivo, tuttavia casi concreti dimostrano come in presenza di un’espressa volontà politica le Assemblee possano approvare rapidamente un disegno di legge (come avvenuto con il c.d. “lodo Alfano”). Pertanto, se si vuole credere nelle potenzialità del Parlamento è necessario mantenere l’attuale forma di governo, prevedendo una legge elettorale che contempli istituti praticabili di democrazia diretta, nonché forme di bilanciamento delle opposizioni (specie nel caso di adozione del sistema congegnato da D’Alimonte) riconoscendo loro, altresì, la possibilità di ricorrere alla Corte Costituzionale.

L’On. Elettra Deiana, a nome di “Sinistra, Ecologia e Libertà”, ha rimarcato come i problemi attuali nascano da criticità connaturate al sistema partitico nazionale: la forma di governo a guida del Primo Ministro rischierebbe di limitare ulteriormente le prerogative del Parlamento, indebolendo ancora di più la funzione dei partiti.

Secondo l’On. Deiana, il “mito” della grande riforma costituzionale è stato in realtà il modo con cui è stata “camuffata” la crisi della politica: nel progettare la nuova architettura istituzionale si dovrebbe affrontare il problema dell’equilibrio dei poteri, senza concentrare l’attenzione sull’uno (Governo) a detrimento dell’altro (Parlamento), anche limitandosi, laddove possibile, a seguire l’iter legislativo ordinario.

Intervenendo in rappresentanza di “Scelta Civica”, l’On. Andrea Romano, nel riconoscere il buon lavoro complessivamente svolto dalla Commissione, ha evidenziato l’importanza di aver superato in quella sede certe preclusioni ideologiche circa il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, frutto di un perdurante conservatorismo culturale e del timore di derive plebiscitarie indotte dal berlusconismo. Riflettendo sull’andamento dell’attuale legislatura, l’On. Romano ritiene, tuttavia, che si stia assistendo ad un certo “sfilacciamento” delle posizioni, con il centro-destra meno propenso oggi allo scambio tra doppio turno di collegio e semi-presidenzialismo ed il centro-sinistra più favorevole al sistema di “premiership”.

Nel ribadire la vocazione riformista del partito di appartenenza, non collocabile “tout court” su tradizionali posizioni centriste e, comunque, non favorevole alla proporzionale, l’On Romano esprime l’orientamento favorevole al rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, che potrà essere utilmente perseguito a patto di ragionare “come se Berlusconi non ci fosse”.

Le conclusioni del convegno sono state esposte dal Presidente del Senato, On. Pietro Grasso, secondo il quale la riforma non deve essere intesa come una rottura di sistema, bensì come un intervento di modifica, di correzione delle criticità, che non incida sulle competenze del Senato “per sottrazione e indebolimento”.

Pertanto, ferma restando l’esigenza di ridurre il numero dei parlamentari, è necessario ristrutturare il bicameralismo valorizzando però il Parlamento nel suo complesso, perché solo da questo passa il miglioramento della qualità della democrazia; motivo per cui l’istituto della fiducia dovrebbe permanere in capo anche al Senato, come avviene attualmente, e non riservato alla sola Camera.

Il Senato dovrebbe essere visto come una sede di raccordo tra le istanze territoriali e lo Stato centrale, da valorizzare anche prevedendo, tra l’altro, l’elezione diretta dei senatori in coincidenza con il rinnovo dei Consigli regionali; in secondo luogo, dovrebbe configurarsi come una sorta di “Camera di riflessione”, dotato di un potere di inchiesta più penetrante di quello attuale.

In sostanza, il bicameralismo italiano dovrebbe passare dalla logica “paritaria” a quella di “specializzazione”: in tal senso, dovrebbe essere limitata la “navetta” dei disegni di legge, secondo una logica di proporzionalità tra la lunghezza dell’iter di approvazione e l’importanza delle proposte stesse.

Di fondo, il vero fulcro del problema istituzionale è il ruolo che sarà in grado di svolgere la politica, origine, secondo il Presidente Grasso, della crisi attuale: in tal senso, è necessario attuare quanto prima l’art. 49 della Costituzione e dare corso all’indispensabile revisione della formula elettorale, in modo da garantire stabilità e rappresentatività, il tutto sempre, per quanto possibile, senza stravolgimenti costituzionali. Il Presidente Grasso ritiene opportuno seguire quell’approccio gradualista nelle riforme istituzionali che ha contraddistinto l’esperienza di Paesi quali gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania, anche perché la radicalità delle scelte in materia spesso viene stemperata dalla prassi dei rapporti politici, come testimoniato dal processo di parlamentarizzazione che sta interessando Paesi teoricamente presidenziali e semi-presidenziali, richiamato nel corso del presente convegno.

L’auspicio finale del Presidente Grasso è che il processo riformatore porti a soluzioni realmente condivise e sia in grado di incidere sia sul sistema dei partiti che sui regolamenti parlamentari, da cui originano le criticità delle istituzioni nazionali.

Resoconto Convegno a cura di Massimo Nardini