Corte Costituzionale, 8 ottobre 2012, n. 223 – Illegittimo i tagli agli stipendi ai magistrati e ai dirigenti pubblici

31.05.2012

Corte Costituzionale, sentenza n. 223. 8 ottobre 2012

Giudizio di legittimità costituzionale, promosso dai i TAR per la Campania, Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Trento, Umbria, Sardegna, Liguria, Calabria, Emilia-Romagna e Lombardia, nei confronti degli articoli 9, commi 2, 21 e 22 e 12, commi 7 e 10 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78.

Norme impugnate

La Corte Costituzionale, nel presente giudizio, è chiamata a valutare la legittimità costituzionale: dell’art. 9, commi 2, 21, 22 e dell’art. 12, commi 7, 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, in riferimento ai seguenti parametri costituzionali – 2, 3, 23, 24, 36, 42, 53, 97, 100, 101, 104, 108, 111, 113 e 117, primo comma. Quest’ultimo, poi in relazione all’art. 6 CEDU. Le presenti questioni sono state sollevate dai i TAR per la Campania, Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Trento, Umbria, Sardegna, Liguria, Calabria, Emilia-Romagna e Lombardia.

– La disciplina censurata, desunta dal combinato disposto dei commi 21-22, dell’art. 9, prevedrebbe per i magistrati (come per il resto del personale non contrattualizzato) un “blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo” e, ai soli magistrati, opererebbe una “una riduzione crescente nel tempo dell’indennità giudiziaria […] e introduzione di tetti all’acconto per l’anno 2014”. Tale disciplina, secondo i ricorrenti, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 100, 101, 104, primo comma, e 108 Cost., in quanto “violerebbe il principio in virtù del quale il trattamento economico dei magistrati non sarebbe nella <<libera disponibilità del potere legislativo>> e dovrebbe non soltanto essere «adeguato» alla quantità e qualità del lavoro prestato […], ma dovrebbe non essere soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)”. Dunque, l’introduzione di tale disciplina realizzerebbe “una irragionevole decurtazione del trattamento retributivo dei magistrati, il quale è caratterizzato da un automatismo legale, che si pone «come guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell’autonomia ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche sul piano economico», con la conseguenza che una simile manovra obbligherebbe il magistrato (come singolo o come Ordine) a rivendicazioni economiche verso i pubblici poteri”. Le misure censurate, poi, sarebbe in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. perché “intrinsecamente irragionevoli, sarebbero inserite in una manovra priva di dimensione solidaristica”. Secondo i ricorrenti, le disposizioni oggetto di censura, con riferimento al meccanismo di blocco temporaneo degli adeguamenti stipendiali, non terrebbero conto:”della giurisprudenza della Corte, in relazione alla necessità che simili interventi debbano essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso»”.

Le decurtazioni previste all’indennità giudiziaria sarebbero così illegittime in quanto “il legislatore, a parità di capacità contributiva ed in violazione dell’art. 53 Cost.,  avrebbe deciso di colpire, con misure continuative, solo una particolare e ristretta classe di contribuenti.

Sussisterebbe, dunque, secondo i ricorrenti, la violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost., in quanto, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata si concreterebbe in una prestazione patrimoniale imposta di natura sostanzialmente tributaria.

– I TAR per l’Abruzzo, Umbria e Calabria hanno censurato anche l’art. 9, comma 2,  in relazione al taglio del trattamento economico complessivo oltre i 90.000 euro ed oltre i 150.000 euro. I ricorrenti hanno affermato che decisione, anziché configurarsi come “una riduzione stipendiale […] avrebbe natura tributaria”. “Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53 Cost., trattandosi di prelievo di natura tributaria, che colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici – includendo quindi i magistrati – in contrasto con il principio della «universalità della imposizione». L’imposta sarebbe, inoltre, discriminatoria, sia in relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale i dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di capacità economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”, risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati”.

– Infine, il solo TAR per l’Umbria, ha contestato il comma 10 dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, il quale dispone che sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, si applica l’aliquota del 6,91%, senza determinare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.p.r. n. 1032 del 1973. Il regime risultante violerebbe gli articoli 3 e 36 Cost., in quanto la  trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, produrrebbe una riduzione dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato.

Argomentazioni della Corte

– La Corte, innanzitutto, nell’analizzare le diverse argomentazioni prodotte dai ricorrenti, ritiene che le questioni relative all’art. 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, sollevate con riferimento alla violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 Cost., sono fondate.

La norma oggetto di censura stabilisce che “per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981, «non [siano] erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012»; e che  «per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 [sia] pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 [venga] determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014 […]”. Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati ordinari, dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della giustizia militare e degli Avvocati e Procuratori dello Stato è stabilito dagli artt. 11 e 12 della legge 2 aprile 1979, n. 97, come sostituiti dall’art. 2 della citata legge n. 27 del 1981. Tali norme dispongono che gli stipendi dei magistrati sono adeguati automaticamente ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi delle voci retributive, esclusa l’indennità integrativa speciale, ottenuti dagli altri pubblici dipendenti.

La Corte, riprendendo la propria giurisprudenza in merito alla retribuzione e alla disciplina dell’adeguamento retributivo dei magistrati, afferma che l’indipendenza della categoria dei magistrati si possa realizzare anche mediante “l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico” (sen. n. 1 del 1978).

Sullo stesso profilo, altre sentenze della Corte hanno disposto che il meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni (meccanismo che le norme censurate prevedono di annullare) “concretizza una guarentigia idonea a salvaguardare l’indipendenza dei magistrati” (sent. n. 238 del 1990, sen. n. 42 del 1993). Dunque, a partire da questa raccolte di sentenze, la Corte ribadisce che attraverso il meccanismo di adeguamento automatico del trattamento economico dei magistrati si mette “al riparo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di interferenza”.

La Corte, nel suo ragionamento, non esclude completamente la possibilità che tale meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati possa subire degli interventi di riduzione, in un contesto di generale “raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego. Tuttavia, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio”.

Infatti, la Corte, ricorda che anche a seguito della grave congiuntura economica del 1992, il legislatore impose sacrifici a tutti i cittadini. Ma i sacrifici imposti dal legislatore, per non essere in contrasto con i precetti costituzionali (in particolare, con l’art. Cost.), devono avere un tempo definito ed essere:”eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso” (sent. n. 99 del 1995 e sent. n. 245 del 1997).

La Corte afferma che, nel caso di specie, tali limiti risultano essere:”irragionevolmente oltrepassati”. In particolare, la Corte sostiene che:”l’intervento normativo in questione non solo copre potenzialmente un arco di tempo superiore alle individuate esigenze di bilancio, ma soltanto apparentemente è limitato nel tempo […]. In definitiva, la disciplina censurata eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive, in danno di una sola categoria di pubblici dipendenti”. Pertanto, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del decreto legge n. 78 del 2010.

– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, nella parte in cui stabilisce la decurtazione dell’indennità prevista dall’art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è fondata.

La norma oggetto di censura dispone che l’indennità “spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, è ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013”.

La Corte, attraverso la sua giurisprudenza, ha definito tale “speciale indennità” di cui gode la categoria dei magistrati. Si tratta, in particolare: “di una componente del normale trattamento economico, soggetto ad una regolamentazione autonoma e necessariamente correlata al concreto esercizio delle funzioni, in quanto espressamente collegata ai particolari <<oneri>> che i magistrati incontrano nello svolgimento della loro attività, la quale comporta peraltro un impegno senza prestabiliti limiti temporali (sent. n. 238 del 1990 e sent. n. 407 del 1996).

La Corte, dopo aver stabilito di natura tributaria la misura in esame, afferma che tale disposizione si pone in contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. La Corte sostiene che:” Il tributo incide su una particolare voce di reddito di lavoro, che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro; e introduce, quindi, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto ai danni della particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia dell’indennità giudiziaria. Con la sua applicazione, infatti, viene colpita piú gravemente, a parità di capacità contributiva per redditi di lavoro, esclusivamente detta categoria […]” Inoltre, la Corte sottolinea che:”l’indicata disparità di trattamento è tanto piú ingiustificata in quanto proprio la sopra ricordata funzione dell’indennità giudiziaria di compenso all’attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia, esige il piú scrupoloso rispetto da parte del legislatore dei canoni della ragionevolezza e dell’uguaglianza”. Dunque, secondo la Corte, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del decreto legge n. 78 del 2010.

– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è anch’essa fondata.

La disposizione censurata prevede che “a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale […], superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro”. La Corte, innanzitutto,

ha valuto che la disposizione impugnata “corrisponde ad una imposta speciale prevista nei confronti dei soli pubblici dipendenti […]. Ritenuta la natura tributaria del prelievo stabilito dalla norma censurata, occorre valutarne la conformità con i parametri evocati”.

La Corte, come fatto in precedenza, riprende la propria giurisprudenza:”[…] il controllo in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sent. n. 111 del 1997).

Secondo la Corte, nel caso di specie, “pur considerando al giusto la discrezionalità legislativa in materia, la norma impugnata si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost”. La Corte che ritiene che “l’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili. Da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. D’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la

stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura. Nel caso in esame, dunque, l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi.

La Corte se da un lato ammette che a fronte di situazioni di eccezionale gravità, il legislatore possa intervenire per porvi rimedio, dall’altro lato, lo stesso Stato ha il compito di garantire, anche in tale condizioni (emergenziali), “il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale. In conclusione, il tributo imposto determina un irragionevole effetto discriminatorio”.

– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 36 Cost. è fondata.

La Corte osserva che “fino al 31 dicembre 2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80% della retribuzione. La differente normativa pregressa prevedeva dunque un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente di cui si discute”.

Invece, nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla norma impugnata, “la percentuale di accantonamento opera sull’intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del TFR maturata nel tempo.

La disposizione censurata, a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.p.r. 29 dicembre 1973, n. 1032.

Nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione.

Conclusioni della Corte

La Corte Costituzione dichiara l’illegittimità costituzionale:

– dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27, non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21;

– dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013; dell’articolo 9, comma 2, del decreto legge n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro;

– dell’articolo 12, comma 10, del decreto legge n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del dpr 29 dicembre 1973, n. 1032.

 

Luca Di Donato