La manutenzione della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Italia, Francia e Spagna

24.05.2012

Seminario annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”

LUISS Guido Carli

Roma, 18 novembre 2011

 

L’Università LUISS Guido Carli di Roma ha ospitato quest’anno il seminario annuale del Gruppo di Pisa, dal titolo “La manutenzione della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Italia, Francia e Spagna” svoltosi in due sessioni, dedicate rispettivamente all’accesso in via principale e all’accesso in via incidentale.

La prima sessione è stata aperta dal prof. Sebastiano Maffettone, Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università ospitante, il quale ha proposto una riflessione sulla stretta connessione che esiste tra costituzionalismo e liberalismo. Visto dall’esterno, in particolare, il costituzionalismo e la giustizia costituzionale incarnano lo spirito antimaggioritario, in un regime di contrappesi. Il terreno sul quale è possibile riscontrare la maggiore confluenza tra teoria politica e costituzionalismo è quello dei diritti umani: lo Stato è infatti l’attore principale preposto al loro  inveramento, anche se la tutela di questi è spesso in grado di superare i rigidi confini nazionali. La tendenza degli ultimi anni della comunità internazionale è, infatti, quella di giudicare gli Stati in relazione al loro comportamento circa il pieno rispetto dei diritti ed alle violazioni eventualmente prodotte: a tal riguardo, il punto sul quale si concentra il dibattito riguarda quale sia il livello di gravità che fa sì che la violazione dei diritti umani abbia rilievo sul piano della comunità internazionale.

Dalla storica contrapposizione tra Schmitt e Kelsen si è raggiunto un compromesso grazie ad Habermas e Rawls, annoverabili come i due maggiori pensatori del ‘900, secondo i quali il costituzionalismo è centrale nell’ambito della costruzione del sistema politico e della costituzione politica. Nell’interpretazione di questi autori emerge l’importante rapporto tra giustificazione e legittimazione: la prima rappresenta la forza del migliore argomento, è teorica, è top-down, ha basi etiche ed è sottoposta ad un regime di pluralismo dal momento che un medesima norma può ricevere diverse giustificazioni; la legittimazione è invece bottom-up, è storica, dipende dall’efficacia relativa della norma ed è il contraltare empirico della prima. Il costituzionalismo diventa dunque filosofia politica nel momento in cui la giustificazione incrocia la legittimazione, che rappresenta un fenomeno più tipicamente giuridico.

In seguito è intervenuto il prof. Pasquale Costanzo, presidente dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, che ha portato il proprio saluto, sottolineando che la scelta di concentrare l’analisi sugli ordinamenti francese e spagnolo è giustificata dal fatto che essi rappresentano due laboratori particolarmente interessanti per l’Italia e sono portatori di rilevanti novità che suscitano particolare curiosità tra gli studiosi.

La prof.ssa Carmela Decaro, della LUISS Guido Carli, ha introdotto i lavori rilevando come il “Gruppo di Pisa” rappresenti un laboratorio importante che raccoglie intelligenze e svolge riflessioni che hanno assunto particolare forza nel modo accademico. Il titolo del convegno, che usa l’espressione “manutenzione” in riferimento al diritto costituzionale, si avvale di una metafora ampiamente utilizzata nel costituzionalismo francese, che spesso paragona la Costituzione ad una bella casa e che impone nel quotidiano la presenza di uno stuolo di competenze che garantisca che il restauro non tradisca le ragioni che furono alla base dell’edificazione della casa stessa.

Questa manutenzione riposa in gran parte sull’attività svolta dalle Corti costituzionali, che rappresentano la risposta costituzionale (non esclusivamente di tipo tecnico) ai problemi del costituzionalismo, i quali spesso si sostanziano nell’esigenza di passare dalla scrittura e dalla proclamazione all’effettività: c’è, insomma, la necessità che il padrone della casa permetta il godimento della stessa. Alle Corti costituzionali si sono aggiunte di recente le Corti sovrastatali, in una sorta di sistema multilivello che è in grado di garantire una maggiore tutela dei diritti all’interno di uno spazio giuridico che va oltre terra e mare e che dalla metafisica della concretezza realizza la concretezza della metafisica.

 Il prof. Thierry Di Manno, dell’Università di Tolone e Var, ha ripercorso le tappe che hanno condotto nel 2008 all’introduzione nell’ordinamento francese della c.d. “question prioritaire de constitutionnalité” (d’ora in poi QPC): le vicende del controllo di costituzionalità nell’ordinamento francese si aprono nel 1958, con l’introduzione del controllo preventivo; nel 1971 si ebbe la storica decisione del Consiglio costituzionale sulla libertà di associazione, che ne tracciava il profilo di “guardiano dei diritti”; nel 1974 vennero invece ampliati e sviluppati i margini di intervento dello stesso, con l’accesso da parte delle minoranze parlamentari. La QPC è stata introdotta mediante l’inserimento del nuovo art. 61-1 nella Carta costituzionale nel 2008, successivamente attuato dalla legge organica del 2 dicembre 2009 e seguita dai decreti di applicazione e dal regolamento di procedura tanto da rendere pienamente in vigore il nuovo istituto a marzo 2010. La prima decisione nell’esercizio di questa nuova attribuzione è stata resa nell’agosto del 2010, anno che si è concluso con 64 pronunce; nel 2011 sono state rese (fino al mese di novembre) 99 pronunce: tali cifre mostrano dunque un aumento folgorante delle decisioni del Consiglio, fino ad allora solito ad adottare non più di una ventina di sentenze all’anno.

In questo quadro va rilevato come la riforma sia intervenuta in un contesto istituzionale estremamente particolare nel quale, accanto al controllo preventivo di costituzionalità, da anni le giurisdizioni ordinarie svolgono il c.d. “controllo di convenzionalità”, mediante il quale il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione effettuano uno scrutinio delle leggi rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, proprio in seguito al rifiuto da parte dello stesso Consiglio costituzionale di svolgere tale ruolo.

La denominazione dell’istituto introdotto dall’art. 61-1 della Costituzione come “question prioritaire de constitutionnalité” è stata adottata dalla legge organica che ha optato in questo senso, ritenendo che lo scrutinio del supposto contrasto tra la legge in esame e la Costituzione debba essere svolto prima dell’eventuale rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

La QPC si caratterizza per tre specificità non riscontrabili nell’ambito degli altri ordinamenti.

In primo luogo, solamente le parti del giudizio hanno diritto di sollevare la questione prioritaria di costituzionalità, mentre coloro che intervengono nel giudizio principale non rilevano nell’ambito della stessa.

In secondo luogo, la QPC si può sollevare solo per verificare il rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione, valutate a partire da un c.d. “blocco di costituzionalità”, che va oltre la Costituzione del 1958. In questo quadro, alcune leggi non possono tuttavia essere oggetto di una QPC: o in ragione della loro natura, essendo escluse le leggi costituzionali e le leggi adottate mediante referendum; o in ragione del loro oggetto, essendo escluse sia le leggi di ratifica dei trattati internazionali sia le leggi di recepimento di direttive UE precise e incondizionate, salvo che le medesime incidano su principi legati all’identità costituzionale della Francia (decisione 2010-79 del 17 dicembre 2010); o, infine, in ragione dell’autorità emanante, visto che una disposizione già dichiarata conforme alla Costituzione non può essere oggetto di una QPC, salvo il mutamento delle circostanze di diritto o di fatto.

In terzo luogo, al fine di evitare un eccesso di ricorsi al Consiglio costituzionale, è stato previsto un meccanismo di filtro necessario per il tramite della Corte di Cassazione o del Consiglio di Stato. Questo filtro ha costituito la condizione necessaria perché queste supreme magistrature accettassero l’introduzione di un giudizio di costituzionalità.

La QPC ha fin qui avuto un impatto molto importante e sarà interessante osservarne gli sviluppi futuri. Al momento il risultato complessivo è più che positivo ed è possibile affermare che l’obiettivo di rendere giustiziabili i diritti costituzionali di libertà è stato raggiunto efficacemente, ha rafforzato lo stato costituzionale francese.

Il prof. Gianluca Conti, dell’Università di Pisa, ha preliminarmente definito il concetto di manutenzione come la scienza degli interventi volti a mantenere intatto un sistema nel tempo. Esso si sostanzia in due attività vicine, ma differenti: da una parte si identificano gli interventi volti a mantenere inalterato un sistema; dall’altra quelli volti a fare in modo che un sistema possa adeguarsi al mutare delle esigenze. L’espressione è spesso utilizzata in inglese, dove il termine manteinance ricorda il mantenimento legato al diritto agli alimenti e si lega al mantenimento in vita disposto dal giudice al fine di assicurare il sostegno minimo vitale; mentre il revamping indica gli interventi di manutenzione svolti sui macchinari obsoleti.

Dietro a questi termini, che indicano interventi di tipo prettamente esterno, la Corte costituzionale italiana ha dimostrato fortunatamente una notevole resilienza, ovvero la capacità di un sistema di riparare ai propri guasti da solo e recuperare così piena funzionalità. L’esempio più importante da ricordare in questo senso è rappresentato dalla deliberazione del 7 ottobre 2008, mediante la quale la Corte ha provveduto a modificare le norme integrative, rinnovando il regolamento di procedura, nello stesso contesto nel quale il sistema di giustizia amministrativa pensava di darsi il codice di giustizia, mostrando di fatto al legislatore di essere in grado di disciplinare da sola il suo processo.

La Corte costituzionale mostra una sostanziale resilienza anche quando ha deciso di aprirsi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con le note sentenze gemelle n. 347 e n. 348 del 2007 e con la sent. n. 181 del 2011, con la quale ha ammesso il sindacato delle leggi alla luce dell’art. 117, primo comma, Cost. se da ciò deriva un grado di tutela non ottenibile attraverso l’applicazione dei soli valori costituzionali. In questo modo, è come se si fosse introdotto una sorta di criterio di ammissibilità nuovo, in base al quale il giudice è tenuto a specificare nell’ordinanza di rinvio il vantaggio ottenibile ricorrendo a tale parametro ulteriore.

La Corte mediante la resilienza si muove in modo molto forte nella definizione della forma di governo e anche nell’ambito del rapporto tra il punto di vista dei cittadini e il punto di vista dello Stato, spostando l’equilibrio vigente tra i due: elemento che emerge chiaramente nelle c.d. sentenze gemelle sull’esproprio, nelle quali si fa riferimento in modo inedito non solo al valore venale del bene, ma anche al prezzo di chi non voleva vendere.

Nella sent. n. 38 del 2011 la Corte giunge a fare riferimento al parametro dell’art. 138 Cost., fino ad attribuirsi il potere di conoscere il contenuto autentico della Costituzione anche laddove questo dovesse rimane inespresso, mediante la c.d. interpretazione adeguatrice, in base alla quale la dichiarazione di incostituzionalità avverrebbe solo se non fosse possibile l’interpretazione conforme, spingendosi così ad introdurre fittiziamente un ulteriore requisito di ammissibilità accanto ai due noti (di rilevanza e non manifesta infondatezza).

Per quanto ci si sia chiesti se l’autonomia normativa in via giurisprudenziale della Corte possa giungere fino a questo punto, ciò che interessa osservare è che, così facendo, la Corte costituzionale disegna un modello di giustizia costituzionale nel quale il bisogno di giustizia costituzionale deve essere spinto il più possibile verso il basso, il più possibile vicino al momento nel quale il bisogno di giustizia emerge. È come se la Corte costituzionale dicesse che la Costituzione deve essere applicata subito e non ci devono essere ritardi che possano essere evitati con uno sforzo interpretativo. La Corte, dunque, come evidenziato anche dal c.d. fenomeno della rilevanza nomofilattica, mostra di essere il vero e proprio architetto del nostro sistema di giustizia costituzionale dalle geometrie sempre più variabili e non semplicemente uno dei suoi tanti attori.

Volendo fare riferimento ad alcuni interventi di manutenzione, uno di tipo straordinario può essere rinvenuto nella sent. n. 16 del 2011, che ha dichiarato inammissibile una questione di costituzionalità sollevata in via incidentale per carenza di individuazione del petitum additivo: espressione particolarmente contestata da Onida che non trova corretto parlare di petitum nell’ambito di pronunce sollevate in via incidentale, dove esiste solo una causa petendi. Tuttavia, se ne comprende il senso rispetto al fine di trovare una maggioranza all’interno del collegio giudicante: tema che pone sul tavolo la questione dell’opinione dissenziente e dell’opinione concorrente quali possibili interventi di manutenzione.

Altro intervento concerne la c.d. retorica motivazionale, con cui la Corte affronta le questioni di legittimità costituzionale avanzate in via incidentale e che può essere ricondotta alla retorica del giudice amministrativo quando affronta un ricorso o un appello al Consiglio di Stato ed è scandita dal fatto che molto spesso l’eccezione non è fondata o è inammissibile. Bisogna tuttavia domandarsi se tale retorica, particolarmente evidente nella sent. n. 23 del 2011, non meriterebbe di essere corretta dal momento che essa nasconde un conflitto tra la magistratura e la politica che andrebbe a tutti i costi evitato.

Un altro ambito sul quale sarebbe opportuno valutare l’opportunità di svolgere un nuovo intervento riguarda l’opportunità o meno che tutte le questioni di legittimità costituzionale giungano ad una decisione finale: per quanto tutte le questioni sollevate nascondano un bisogno di giustizia costituzionale, non mancano casi di questioni prive di oggetto perché la norma è già stata dichiarata incostituzionale. Sarebbe opportuno in questo senso fare riferimento all’art. 9 delle norme integrative, in cui si fa accenno all’estinzione del giudizio in via incidentale, e domandarsi se non si possa giungere ad una perenzione anzitutto delle questioni prive di oggetto.

Il primo intervento da iscrivere nell’ambito del revamping dovrebbe affrontare, invece, la questione della rilevanza nell’ambito dei procedimenti cautelari, in riferimento ai quali la soluzione adottata dalla Corte non risulta essere soddisfacente. La Corte è, infatti, solita ritenere rilevante una questione di legittimità costituzionale sollevata nell’ambito di un incidente cautelare in due casi: qualora un giudice non decida dell’incidente cautelare e rinvii la sua trattazione ad un momento successivo alla decisione sulla questione di legittimità costituzionale da parte della Corte; oppure qualora il giudice accolga la domanda cautelare per il tempo strettamente necessario alla Corte per decidere sulla questione di legittimità, aggiornando la decisione definitiva sul procedimento cautelare ad un momento successivo alla pubblicazione della sentenza sulla questione di legittimità costituzionale. Nel primo caso la giustizia cautelare è sicuramente negata: se, infatti, vi è un danno grave ed irreparabile, il tempo per attendere la soluzione della questione di legittimità costituzionale fa perdere alla giustizia cautelare qualsiasi significato. Lo stesso potrebbe dirsi per il secondo caso, dal momento che la separazione del periculum (che coincide con il danno che soffre il soggetto che avanza il procedimento cautelare e che deve essere valutato dal giudice a quo) dal fumus (rappresentato dalla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale in via incidentale) pone non pochi problemi, rappresentando quest’ultimo un giudizio prognostico che  illumina il danno che a sua volta illumina il fumus. Sarebbe dunque opportuno concentrare dinnanzi alla Corte costituzionale la cognizione piena dei procedimenti cautelari, modificando opportunamente la legge n. 87 del 1953.

Altra questione riguarda la possibilità per la Corte dei Conti di sollevare questioni di legittimità costituzionale in via incidentale, esclusa apertamente dalla Corte costituzionale (con la sent. n. 37 del 2011) quando giudica sul rispetto dei vincoli di indebitamento degli enti locali e sul rispetto del patto di stabilità interno, introducendo in questo modo una zona franca importante nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale e che concerne la governance pubblica dell’economia.

Altro intervento di revamping concerne la possibilità per il Consiglio di Stato, quando conosce in sede consultiva dei ricorsi straordinari al Capo dello Stato, di sollevare questioni di legittimità costituzionale in via incidentale, previsto all’art. 69 della l. n. 69 del 2009, ma in contrasto rispetto a quanto previsto dall’art. 819-bis del codice di procedura civile, in cui il legislatore si è limitato a disciplinare il modo con cui può essere attivata la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale da parte dei collegi arbitrali. Si tratta di un conflitto tra Corte e legislatore, dal momento che il legislatore è intervenuto sui modi con cui la Corte interpreta i presupposti della propria giurisdizione e rappresenta un vero attacco diretto del legislatore all’autonomia normativa della Corte, coevo alla riforma delle norma integrative.

Tale prospettiva può inoltre essere sfruttata per raggiungere l’obiettivo della piena sindacabilità dei regolamenti parlamentari: gli interna corporis rischiano di essere degli arcana seditionis e le minoranze parlamentari rischiano di essere schiacciate dalla maggioranza che non si cura di tutelarle. In questo quadro l’apertura al ricorso straordinario potrebbe garantire loro di perseguire la giustiziabilità degli interna corporis percorrendo quella strana strada che da palazzo Spada porta al Quirinale.

In conclusione, mantenere intatto nel tempo il valore del nostro sistema di giustizia costituzionale può non essere particolarmente complesso ed è un compito che, dal 1956 ad oggi, ha svolto la stessa Corte costituzionale, dimostrando una straordinaria resilienza. Più complicato sarebbe invece consentire alla Corte costituzionale di accettare le sfide che il costante mutamento dei tempi le pone, ma questo è ciò che si dovrebbe fare accettando qualche soluzione forse non elegante sul piano teorico e dogmatico, ma necessaria per la salvaguardia dell’ideale democratico.

Negli interventi che sono seguiti, il dott. Vincenzo Sciarabba, dell’Università di Pavia, ha sottolineato come la pratica della disapplicazione, da parte del singolo giudice, di una legge, per violazione di una norma diritto dell’Unione europea direttamente applicabile, apre sostanzialmente la strada ad un sindacato di costituzionalità diffuso. Al fine di evitare tale degenerazione sarebbe opportuno che in tali circostanze la Corte ne riconosca la rilevanza, sollevando questione pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Il prof. Roberto Romboli, dell’Università di Pisa, rispetto al ruolo di architetto riscoperto dalla Corte costituzionale evidenziato nella relazione di Gianluca Conti, ha segnalato il notevole valore che ricoprono le regole processuali e non di disciplina della Corte stessa. Rispetto alle proposte sul campo, ha altresì espresso un’opinione negativa sia sul fronte dell’introduzione dell’opinione dissenziente, sia in riferimento alla possibilità di prevedere l’accesso in via diretta delle minoranze parlamentari.

La prof.ssa Barbara Randazzo, dell’Università di Milano, ha ritenuto interessante il doppio binario sperimentato in Francia, che si è sostanziato nel controllo di convenzionalità e di costituzionalità, anche se rimane problematica la precisa individuazione del parametro alla luce del quale svolgere il controllo di convenzionalità.

 Il dott. Davide Paris, dell’Università del Piemonte orientale, si è soffermato sulle differenze che intercorrono tra il modello di giustizia costituzionale italiano e quello francese, nelle cui sentenze non si rinviene la motivazione in fatto che, invece, non manca mai nelle pronunce della nostra Corte costituzionale: ciò dipende dal fatto che il nostro è un modello successivo e concreto, mentre il Conseil Constitutionnel francese svolge uno scrutinio astratto di tipo preventivo. Il modello francese, ad ogni modo, rappresenta un’esperienza interessante per l’Italia, tanto più che la Corte costituzionale vede il proprio ruolo minato dai rapporti sempre più stretti tra giudici nazionali e Corte di giustizia dell’Unione europea.

 Il prof. Massimo Siclari, dell’Università di Roma Tre, ha notato anzitutto come la Corte costituzionale sia spesso vittima della microconflittualità, non essendo previsti nel nostro paese meccanismi di filtro come quelli esistenti in Francia o in Spagna. In secondo luogo, definire generalmente il nostro sistema di giustizia costituzionale come di tipo accentrato risulta essere alquanto riduttivo: è tale guardandolo esclusivamente sul lato del soggetto legittimato a dichiarare l’incostituzionalità della norma di legge, ma non di certo sul lato dell’iniziativa e dell’importante ruolo svolto dai giudici ordinari. Sarebbe pertanto più opportuno denominarlo come modello misto. In ultima analisi, rispetto alla proposta che vorrebbe legittimare le minoranze parlamentari a rivolgersi alla Corte, sarebbe opportuno verificare in via preventiva le possibilità di accesso percorrendo la via del conflitto di attribuzione.

 Il prof. Thierry Di Manno ha risposto anzitutto alla domanda posta da Barbara Randazzo in riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo come parametro del giudizio: in questo senso non ci sono decisioni che lo esplicitano apertamente, ma nella pratica quotidiana ciò avviene in modo implicito nell’ambito delle decisioni.

Rispetto alla domanda posta da Davide Paris, circa una maggiore tutela dei diritti in seguito all’entrata in vigore della QPC, va notato che il controllo di convenzionalità ha effetto solamente inter partes; mentre con la QPC gli effetti sono erga omnes, in quanto si ha un effetto di caducazione della legge dichiarata incostituzionale: in questo quadro, dunque, la QPC risulta essere maggiormente garantista del rispetto dei diritti soggettivi rispetto al controllo di convenzionalità.

In questi ultimi mesi si è anche verificato un conflitto con la Corte di Cassazione che ha rifiutato, in una ventina di casi, di rinviare la questione di costituzionalità al Consiglio costituzionale, dal momento che la contestazione deve vertere su disposizioni di carattere generale e non già sull’interpretazione data nel caso concreto.

 Il prof. Gianluca Conti, in replica, si è soffermato sulla necessità che la proposta volta ad introdurre un accesso alla Corte costituzionale per le minoranze parlamentari sia valutata non sulla base di giudizi di valore: occorre infatti un ragionamento a monte sull’opportunità del rimedio, che sarebbe del tutto auspicabile, introducendo magari alcuni criteri di selezione dei casi da un punto di vista processuale. Ribadisce inoltre come le ordinanze di inammissibilità spesso nascondano l’assenza di rilevanza costituzionale e come il ricorso costante all’interpretazione adeguatrice, all’interpretazione conforme e la c.d. rilevanza nomofilattica stiano trasformando il sistema di giustizia costituzionale.

 La seconda sessione del seminario ha affrontato il tema del giudizio in via principale ed è stata introdotta dal Prorettore della LUISS Guido Carli, prof. Roberto Pessi, che ha posto all’attenzione il problema del rapporto tra ordinamenti citando la sentenza Laval della Corte di giustizia UE (sentenza 18 dicembre 2007, Laval un Partneri Ltd v. Svenska Byggnadsarbetareförbundet e a.: causa C-341/05), nella quale si afferma che il valore della libertà di circolazione dei servizi e dei capitali prevale sul diritto di sciopero, pur garantito espressamente dalla carta costituzionale italiana, e che mostra simbolicamente la potenziale portata rivoluzionaria di alcune disposizioni del diritto dell’Unione europea e del nuovo rapporto tra le Corti.

 Il prof. Josep Castellà Andreu, dell’Università di Barcellona, ha innanzitutto ricordato che la Costituzione spagnola del 1978 non specifica quale sia il rapporto tra la giustizia costituzionale e la questione territoriale. È stato solo il legislatore del 1979 ad avere chiarito che la conflittualità tra lo Stato e le regioni non debba essere risolta attraverso il conflitto di attribuzione, ma mediante il giudizio di legittimità. In Spagna, sono soggetti legittimati a sollevare il ricorso in via diretta il Presidente del governo, gli esecutivi e le assemblee legislative delle comunità autonome, il difensore del popolo, le opposizioni.

Le successive riforme della Legge organica che disciplina il funzionamento del Tribunale costituzionale (la c.d. LOTC) non hanno inciso molto sulle procedure ordinarie di controllo della legge: più che altro hanno inciso sul recurso de amparo e su quello a tutela dell’autonomia locale.

In particolare, la riforma della LOTC del 1985 ha inteso eliminare il ricorso preventivo, che si trasformava in un vero e proprio potere di veto sulle leggi; ad oggi, il ricorso preventivo riguarda conseguentemente solo i trattati internazionali. La successiva riforma del 1999 ha introdotto il c.d. “conflitto in difesa dell’autonomia locale”. La riforma del 2000 ha inteso ovviare all’uso politico del ricorso di legittimità costituzionale sulle leggi statali e delle comunità autonome, introducendo l’istituto della conciliazione preventiva, che però nella prassi non ha funzionato.

La modifica del 2007 rappresenta la più grande riforma della LOTC, che ha introdotto le seguenti novità: a) ha razionalizzato il recurso de amparo, ridefinendo i criteri per l’ammissibilità stessa del ricorso; b) ha valorizzato il ruolo delle parti nei processi a quibus, attribuendo loro il compito di valutare non solo la rilevanza, ma anche la non manifesta infondatezza della questione incidentale di costituzionalità; c) ha consentito il decentramento della decisione in seno al Tribunale costituzionale tra il plenum e le sezioni per ridurre i tempi delle decisioni; d) ha promosso la partecipazione delle assemblee legislative autonomiche al procedimento di nomina dei giudici costituzionali su proposta di una Commissione del Senato. Nel complesso, la riforma ha inteso riequilibrare il ruolo del Tribunale costituzionale quale giudice dei diritti e giudice delle competenze.

Infine, è intervenuta la riforma del 2010 sulla cd. “blindatura” delle norme forali in materia tributaria dei territori storici baschi, che in futuro potranno essere sindacate solo dal giudice costituzionale.

Altro momento importante della storia della giustizia costituzionale spagnola è quello che inizia nel 2006, con l’avvio della stagione di riforma degli statuti delle comunità autonome. Il punto forse più significativo di tale stagione coincide con la nota sentenza sullo statuto catalano (STC 31/2010), che rappresenta inequivocabilmente un momento di scontro politico che si trasforma in scontro giudiziario.

Due, in particolare, sono le questioni emerse da tale vicenda che in questa sede maggiormente interessano: la questione della competenza delle comunità autonome in tema di diritti e il tema della partecipazione delle comunità autonome ad istituzioni statali come la Corte costituzionale. 

 

 

La prof.ssa Barbara Randazzo ha tenuto la seconda relazione distinguendo l’attività di manutenzione in ordinaria, volta a perseguire una migliore applicazione degli istituti vigenti, dall’attività di manutenzione straordinaria, volta al miglioramento complessivo dell’edificio processuale, eventualmente modificandone in parte gli istituti, intervenendo sulle norme costituzionali, sui regolamenti parlamentari, sulla legge n. 87 del 1953, sulla giurisprudenza e sulle prassi costituzionali. La scelta dello strumento attraverso il quale operare tali interventi di manutenzione non è indicativo della tipologia di manutenzione che si intende operare, ma rivela semplicemente il livello di rigidità dello stesso.

Entrando nel merito, la sent. n. 304 del 2002 chiarisce che il controllo sugli statuti regionali rimane prioritario e preventivo rispetto allo svolgimento di un eventuale referendum, sposando una prospettiva coerente con quanto riferito in precedenza dal prof. Di Manno sulla QPC, dal cui ambito sono escluse le leggi approvate con referendum. La Corte costituzionale ha anche escluso la possibilità per il Governo di svolgere il controllo sugli Statuti delle regioni per il tramite di quanto disposto dall’art. 127 Cost., rimanendo invece percorribile la strada del conflitto di attribuzione.

Passando ad alcune considerazioni di carattere generale sullo stato del contenzioso in materia di rapporti Stato-regioni, che ha fatto registrare una costante crescita nel corso degli ultimi anni, si può notare che il giudizio principale è oggi quello che origina maggiori decisioni della Corte costituzionale: da Corte dei diritti, la Corte costituzionale si sta trasformando sempre più in Corte dei conflitti, in seguito all’aumento delle prerogative regionali, al nuovo riparto per materie ed alla fine del parallelismo che la Corte tende a risolvere ricorrendo molto spesso al criterio della prevalenza.

Tra i fattori che hanno condotto all’aumento dei ricorsi in via principale troviamo sia l’incremento (almeno sulla carta) delle competenze delle regioni, sia aspetti patologici come il riparto per materie, l’eliminazione del principio del parallelismo in assenza di clausole di flessibilità, nonché l’assenza di un obbligo costituzionale a che il procedimento legislativo sia conformato alla leale collaborazione. L’aumento vertiginoso delle impugnazioni in via diretta va altresì ricondotto anche ad un alto tasso di conflittualità politica, che spesso si ripercuote su tale strumento.

Fino ad oggi la maggior parte degli interventi di manutenzione della giustizia costituzionale sono di natura ordinaria, operati per lo più dalla Corte stessa: o in via pretoria, oppure mediante l’adozione delle nuove norme integrative avvenuta nel 2008. L’unico intervento di tipo legislativo risale alla legge n. 131 del 2003 che, nella permanente assenza del ricorso diretto alla Corte costituzionale da parte delle autonomie locali, ha previsto la possibilità che queste si rivolgano sia alla Conferenza Stato-città sia al Consiglio delle autonomie locali di ciascuna regione per chiedere, in via del tutto non vincolante, l’impugnazione da parte della Regioni delle norme statali lesive delle loro attribuzioni.

Di recente le norme integrative hanno introdotto un nuovo requisito di ammissibilità, prevedendo che nel ricorso non si debbano indicare solamente le norme impugnate e i parametri, ma anche l’illustrazione delle censure, riflettendo così un atteggiamento giurisprudenziale che risale agli anni ‘90. Peraltro, la giurisprudenza sull’atto introduttivo appare ancora piuttosto generica ed appare consolidata sul solo punto di ritenere inammissibili le motivazioni per relationem.

Altro tema interessante è rappresentato dalla disciplina del potere cautelare nei confronti sia delle leggi regionali sia delle leggi statali impugnate, che si sostanzia in una sospensione su istanza di parte e non ex officio. Il Governo non ha tuttavia mancato di agire in modo a dir poco discutibile, disponendo la sospensione di una legge regionale mediante decreto-legge e procedendo, in un momento immediatamente successivo, all’impugnazione della legge regionale sospesa.

Rispetto al tema della separazione e della riunione dei casi in base al requisito di omogeneità, risalente al 2003 e formalizzato nelle norme del 2008, va notato che un eccessivo indugio in questo senso rischierebbe di far perdere l’approccio unitario alla questione di legittimità sollevata.

         Passando al tema della manutenzione straordinaria, emergono quattro profili: a) la centralità che assume il giudizio sulle leggi in via d’azione nel definire il ruolo della Corte nel sistema (sia in ragione della riduzione dei giudizi in via incidentale; sia in virtù della presenza di circuiti alternativi di giustizia costituzionale, soprattutto in materia di diritti, che si sostanziano nella pratica della disapplicazione operata dai giudici comuni); b) gli aspetti di crisi della legge: la cattiva qualità del materiale legislativo, anche in ragione di uno scarso controllo sul rispetto dell’art. 72 Cost.; c) la crescente rilevanza dei parametri di derivazione esterna nell’ambito dei giudizi; d) il carattere decisivo che la giurisprudenza costituzionale è andata assumendo nell’ambito della definizione dell’assetto regionalistico dello Stato.

Si pone dunque l’esigenza di un’operazione di manutenzione straordinaria, mettendo anzitutto sul tavolo il ripensamento dell’art. 127 Cost., anche in virtù dell’asimmetria che continua a caratterizzare il ruolo dello Stato e quello delle regioni. Va altresì considerato che la garanzia dell’unitarietà del sistema non può essere rimessa interamente allo Stato, escludendo le regioni, ma deve essere pensata e praticata a livello sovranazionale.

 

Il prof. Nicola Lupo, della Luiss Guido Carli, nel moderare il dibattito, ha rilevato che l’esigenza di procedere, in Italia, alla manutenzione della giustizia costituzionale non possa non apparire evidente, alla luce di un esame comparatistico, anche superficiale, delle vie di accesso alla giustizia costituzionale. Tuttavia, il concetto di manutenzione chiama in causa il tema delicato del rapporto tra la Corte e gli altri poteri, e lo fa sia sotto il profilo dell’oggetto (in quanto si tratta di definire le attribuzioni della Corte, in relazione evidentemente a quelle spettanti ai giudici o al legislatore), sia sotto il profilo del metodo (potendosi configurare sia interventi di manutenzione rimessi solo alla Corte, sia interventi decisi dal legislatore, ordinario o costituzionale). Sotto quest’ultimo profilo, appare però difficile immaginare, per la giustizia costituzionale, spazi ulteriori per un’opera di autoriforma che ha già probabilmente toccato il punto massimo possibile: è ormai giunto il momento per un intervento da parte del legislatore, anzitutto di quello costituzionale, da svolgersi ovviamente con il pieno ed attivo coinvolgimento della stessa Corte costituzionale, nel confronto però con gli altri organi costituzionali.

 

Intervenendo nel dibattito, la prof.ssa Melina Decaro ha concordato sul fatto che il limite dell’autoriforma sia ormai stato raggiunto e afferma che un tema centrale è rappresentato dal rapporto tra poteri, indipendentemente dal ruolo della Corte. Sulla Corte si riversano, infatti, le questioni lasciate aperte dal c.d. abbandono delle riforme a fronte del quale nel 2007 si iniziò un tentativo da parte dell’allora Ministro degli Affari regionali di concertazione tra Stato e regioni, che mirava a rendere il regionalismo un processo e una pratica partecipata e ad abbattere il contenzioso costituzionale.

 

Il prof. Thierry Di Manno ha ricordato anzitutto che in Francia non esiste una via d’accesso alla giustizia costituzionale per le comunità territoriali, anche se esiste una realtà come la Nuova Caledonia che produce leggi con lo stesso valore di quelle approvate dal Parlamento, con grande turbamento per i francesi, abituati ad un cultura improntata al giacobinismo.

 

Il prof. Marco Ruotolo, dell’Università degli studi di Roma Tre, ha affermato che, dopo quasi dieci anni di giurisprudenza costituzionale, oggi si riscontra un maggiore tasso di prevedibilità delle pronunce sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via principale che contestano norme di legge sulla base del nuovo titolo V della Costituzione. Si potrebbe addirittura affermare che ormai il titolo V vigente, per effetto della giurisprudenza costituzionale, sia sostanzialmente diverso da quello entrato in vigore nel 2001.

 

Il prof. Marcello Cecchetti, dell’Università di Sassari, ha preso le mosse dalla constatazione dell’aumento progressivo del contenzioso in via principale, a dispetto di quanti tendono a ritenere che la giurisprudenza della Corte sui rapporti tra Stato e Regioni sia andata sempre più consolidandosi nel chiarire le dinamiche operative della riforma costituzionale del 2001. Ha sottolineato, però, come l’aumento dei ricorsi manifesti, allo stato attuale, un evidentissimo squilibrio tra le impugnazioni statali e quelle regionali: dei 133 ricorsi depositati nel corso del 2011 fino a metà novembre, appena meno di un quarto vedono le Regioni come parte ricorrente. Le ragioni di un simile squilibrio sono sicuramente molteplici, ma in larga parte riconducibili alla forte “demotivazione” delle Regioni ad impugnare gli atti legislativi dello Stato dovuta ad una giurisprudenza che, almeno a partire dal 2007, ha contribuito ad indebolire sempre di più la spinta innovatrice in senso autonomistico della riforma del Titolo V, anche mediante vere e proprie correzioni sostanziali in senso spiccatamente centralistico degli orientamenti che la Corte aveva espresso nel primo quinquennio di vita del nuovo testo costituzionale.

Altra ragione di squilibrio è ovviamente rappresentata dalla ben nota questione dell’asimmetria che caratterizza i vizi deducibili, rispettivamente, dallo Stato e dalle Regioni nella proposizione del ricorso. A tale proposito, però, ad avviso del prof. Cecchetti, il nodo più problematico non risiede tanto nel fatto che le Regioni siano legittimate ad impugnare atti legislativi dello Stato solo per difendere l’integrità della loro sfera di attribuzioni costituzionali, quanto nel fatto che in troppi casi tale legittimazione finisce per essere meramente virtuale, perché la Corte riconosce assai difficilmente l’ammissibilità dei vizi da lesione c.d. “indiretta”, ossia dei vizi di norme legislative che incidono in termini vincolanti sulle competenze regionali, ma che risultano fondati sulla sola violazione di parametri costituzionali estranei al Titolo V.

 

Il prof. Andrea Deffenu, dell’Università di Cagliari, ha posto l’interrogativo se a dieci anni dalla riforma del titolo V le regioni si siano meritate tale riforma, anche alla luce di come queste si sono atteggiate e di come non siano riuscite a sviluppare una matura coscienza legislativa.

 

Il dott. Andrea Rovagnati, dell’Università di Milano, in tema di manutenzione straordinaria, chiede se è opportuno creare un sindacato preventivo per il controllo da parte della Corte sull’adeguatezza dei mezzi per far fronte alle spese istituite dalle leggi dello Stato e delle regioni e se eventualmente è opportuno creare una sezione specializzata in simili questioni. Si chiede inoltre se, alternativamente, la Corte dei Conti potrebbe far fronte a tale ruolo.

 

Nelle repliche, la prof.ssa Barbara Randazzo ha sostenuto che il controllo preventivo sugli statuti regionali vada mantenuto, rappresentando uno strumento che trova analoghe esperienze sul fronte comparatistico, mentre non sarebbe opportuno arrivare ad una nuova revisione del titolo V. Lo stallo che in questo periodo vive il regionalismo può essere ricondotto ai timori che suscita in questo periodo il c.d. federalismo fiscale. Infine, ha negato che esista una Costituzione economica che abbia una sua autonomia rispetto a tutto il resto e ritiene perciò che non sia opportuna una giurisprudenza separata.

 

Il prof. Josep Castellà Andreu ha sottolineato che in ambito economico, fino al settembre 2011, erano previsti due meccanismi di controllo sulle questioni finanziarie e di bilancio: uno preventivo ed uno successivo di tipo giurisdizionale. Il nuovo art. 135 della Costituzione spagnola ha introdotto nel settembre 2011 il principio di stabilità finanziaria, la cui entrata in vigore sarà differita in due fasi: in primo luogo, mediante l’approvazione di una legge organica; e in secondo luogo l’effettiva entrata in vigore del principio nel 2017-18. In questo quadro è più che opportuno che il controllo di tale nuovo istituto ricada nella competenza del Tribunale costituzionale.

 

Le conclusioni del convegno sono state svolte dal prof. Cesare Pinelli, dell’Università di Roma “Sapienza”, il quale ha osservato che dalla relazione del prof. Di Manno emerge come in Francia vi siano di fatto tre giudici costituzionali, di cui i primi due sono preposti alla valutazione preventiva della fondatezza della questione. Una “rivoluzione” di tale portata induce a pensare che serviranno forti scosse di assestamento di tipo giurisprudenziale per giungere a stabilizzare il sistema e che queste andranno avanti per molto tempo: è altresì possibile immaginare che queste riguarderanno anzitutto il rapporto con le Corti sovrastatali con le quali anche la nostra Corte costituzionale sta instaurando sempre maggiori legami, onde evitare di essere esclusa dal rapporto diretto tra giudici comuni e giudici di Strasburgo e del Lussemburgo.

La relazione del prof. Conti ha invece analizzato i problemi che coinvolgono la Corte costituzionale, e che sarebbe più opportuno risolvere mediante la modifica delle norme integrative e nuovi orientamenti giurisprudenziali, piuttosto che con riforme di stampo legislativo. A ciò va aggiunto che anche il sistema italiano di giustizia costituzionale può essere inteso come un sistema a tre attori, dato dall’equilibrio che si stabilisce tra la Corte costituzionale, i singoli giudici ordinari e il legislatore. L’obiettivo della massima effettività nella tutela dei diritti fondamentali può essere efficacemente raggiunto agendo soprattutto sulla via incidentale e solamente tenendo debitamente conto della collocazione della Corte costituzionale rispetto alle altri Corti ed al rapporto che si deve instaurare con i giudici.

La riflessione condotta in questi anni a partire dalla giurisprudenza costituzionale con enormi ricadute scientifiche sulla distinzione tra principi e regole merita di essere rivissuta alla luce della nuova insistenza sulle regole che si è avvertita nelle recenti pronunce della Corte costituzionale. L’esigenza di regole solide in questi anni è stata, infatti, molto forte, tanto che non si può accettare l’affermazione in base alla quale il diritto costituzionale si sostanzierebbe nei soli principi: si tratta sì di principi, assistiti tuttavia da regole e istituti.

In riferimento al tema dell’opinione dissenziente, un’opinione contraria a tale prospettiva non deve necessariamente basarsi su argomentazioni che fanno riferimento alla situazione di profonda spaccatura politica: nel suo volumetto Princìpi e voti, Gustavo Zagrebelsky esclude decisamente l’opinione dissenziente, affermando che, nel momento in cui emettonole proprie decisioni, i giudici della Corte in realtà non votano come avviene all’interno di un’assemblea e non è dunque necessario rendere pubblico ciò che avviene.

La relazione del prof. Castellà Andreu ha toccato una questione che si ritrova anche in Italia e che concerne i profili non giuridici degli statuti autonomici, presenti anche negli statuti delle regioni italiane, soffermandosi particolarmente sulla sentenza sullo statuto della Catalogna: in questa il Tribunale costituzionale spagnolo è stato chiamato a pronunciarsi sulla natura stessa del Regno di Spagna, e ha affermato in modo perentorio che si tratta effettivamente di uno Stato regionale e non di uno Stato federale, dando, in questo modo, un’indicazione estremamente utile anche per l’Italia. L’esperienza di un conflitto del genere in Italia non si è mai avuta, pur essendosi sperimentata una situazione di regionalismo asimmetrico nella quale la corda tende sempre ad essere tirata nella stessa direzione, nel senso di chiedere sempre qualcosa in più: in questo si spiega la logica pattizia e contrattuale nei rapporti Stato-regioni.

Dalla relazione della prof.ssa Randazzo emerge una posizione non eccessivamente critica nei confronti della giurisprudenza costituzionale, ricalcandosi, tutt’al più, un invito, rivolto ai costituzionalisti, a riflettere maggiormente su quanto accaduto negli ultimi anni al fine di comprendere meglio e più a fondo l’esperienza del regionalismo. Bisogna inoltre evitare che l’evoluzione della giurisprudenza della Corte sia ridotta al mero confronto tra tendenze filoregionaliste (a partire, secondo alcuni, dal 2003) o filostatalista (secondo una certa linea di pensiero, a partire dal 2007): emerge, in realtà, una Corte costituzionale che si è sviluppata con coerenza, e che è particolarmente preoccupata per lo scollamento tra il riparto di funzioni legislative e funzioni amministrative che devono invece essere raccordate diversamente e il cui onere è stato sostenuto integralmente dalla stessa Corte, seppur con tutti i suoi limiti. In questo quadro, nell’interpretazione della giurisprudenza costituzionale del nuovo art. 114 Cost. si delinea il profilo della Repubblica come un ordinamento contenente lo Stato, che non ha più la superiorità gerarchica sancita nelle sentenze degli anni precedenti. La questione centrale non sta, infatti, nell’essere filoregionalisti o filostatalisti, quanto, piuttosto, nel far funzionare un sistema che presenta numerose lacune e la cui legislazione è di per sé estremamente centralista.

Nel corso del convegno è emerso dunque come le questioni che si pongono siano innumerevoli e di non facile soluzione. È opportuno in questo senso che si individuino i nodi problematici sui quali i costituzionalisti dovranno riflettere in futuro, approfondendo la giurisprudenza costituzionale e tenendo tuttavia in considerazione che questa rappresenta solamente una parte, seppur estremamente rilevante, dell’assetto delle autonomie in Italia. A complicare ulteriormente il quadro, si trovano i problemi derivanti dalla crisi economica e le previsioni relative al commissariamento di regioni per deficit sanitario da parte dei medesimi presidenti, la cui ricandidatura potrebbe essere preclusa in caso di mancato rispetto degli obiettivi: si tratta di previsioni che fanno evidentemente emergere come tardi ancora ad affermarsi una nitida cultura dell’autonomia, nella quale lo Stato e le regioni si trovano su piani separati e la Corte costituzionale svolge pienamente il ruolo di arbitro tra i due.

 

a cura di Alessandro Maria Baroni