PREGIUDIZIALE AMMINISTRATIVA E DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO

28.05.2011

La sentenza dell’Adunanza plenaria in commento riveste particolare interesse non solo con riguardo al tema della c.d. “pregiudiziale amministrativa”, argomento da tempo ormai al centro di un serrato dibattito in cui si sono intervenuti il Giudice Amministrativo, il Giudice Ordinario, la dottrina e, da ultimo, il Legislatore, ma anche in relazione alla definizione del sistema delle azioni all’interno del nuovo processo amministrativo.

Come noto, infatti, nel testo licenziato dalla Commissione mista costituita presso il Consiglio di Stato si prevedeva, oltre alla generale azione di annullamento, anche le azioni di accertamento e condanna, nonché l’azione di adempimento, ossia il rimedio apprestato a favore del titolare di un interesse legittimo pretensivo per conseguire in sede giurisdizionale la pronuncia della condanna dell’Amministrazione ad assumere il provvedimento richiesto (o negato). Il testo del Codice, tuttavia, è stato poi assoggettato ad una singolare quanto incisiva riformulazione ad opera del Governo, sino ad assumere l’attuale consistenza.

Nella sua formulazione definitiva, infatti è stata eliminata l’azione di adempimento, mentre quella di accertamento si è trasformata da strumento generale a rimedio azionabile al solo (quasi eccezionale) fine di ottenere la declaratoria di provvedimenti nulli, per di più entro un termine decadenziale di 180 giorni. Del pari, anche l’azione risarcitoria per la lesione di interessi legittimi ha subito un sostanziale ridimensionamento, quanto alla sua effettività, essendo stato ridotto il termine per la sua esperibilità a 120 giorni.

E, forse proprio per tale inattesa ridefinizione del testo, rispetto al quale il Consiglio di Stato non era pronunciato rendendo l’usuale parere sui testi delegati, è accaduto che in un contesto così autorevole, come quello dell’Adunanza plenaria, sia stata espressa preferenza per un’interpretazione del dato normativo assai flessibile, quasi a recuperare l’originaria formulazione poi espunta.

In questa prospettiva, non pare del tutto casuale che nella sentenza in commento, prima di affrontare il merito della questione dedotta, ossia la rilevanza della pregiudizialità ai fini del concretizzarsi del diritto al risarcimento del danno, sia stata avvertita l’esigenza di soffermarsi sul sistema delle azioni così come delineato dal nuovo Codice del Processo Amministrativo.

Dopo avere ricostruito in sintesi i termini del dibattito sulla pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione di danno, secondo le diverse prospettive del Giudice Ordinario e di quello Amministrativo, l’Adunanza plenaria si sofferma sulle novità contenute nell’art. 30 del c.p.a. evidenziando come tale articolo abbia introdotto espressamente la possibilità di proporre un’azione risarcitoria in via autonoma (comma 1) entro un termine decadenziale di centoventi giorni (comma 3, primo periodo); il che, del resto, è confermato anche da quanto stabilito dall’art. 7, co. 4, del c.p.a. Aggiunge, inoltre, il Consiglio di Stato che l’autonomia dell’azione risarcitoria è confermata dall’art. 34 del c.p.a. sia nella parte in cui si ammette la possibilità per il Giudice Amministrativo di sindacare la legittimità di atti ormai definitivi, in deroga al generale divieto posto a tale tipo di scrutinio, sia in quella in cui si consente comunque di accertare l’illegittimità del provvedimento quando tale pronuncia rilevi a soli fini risarcitori.

Secondo l’Adunanza plenaria, il complesso di disposizioni in questione, nel sancire la completa autonomia tra tutela caducatoria e quella risarcitoria “si inserisce … in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni”.

Sviluppando tale enunciazione di principio, il Consiglio di Stato prospetta l’esistenza, oltre alla “tutela di annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex art. 30)”, della “tutela dichiarativa (cfr. l’azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4)” e della “azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3)” nei casi di silenzio-inadempimento.

Ma l’affermazione di maggior interesse è quella secondo cui “deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto”.

Secondo l’Adunanza plenaria, l’adozione della azione di condanna “è desumibile dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull’atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717)”.

Significativamente, l’Adunanza plenaria conclude sul punto affermando che “in definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”, con la conseguente “trasformazione del giudizio amministrativo, ove non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione, da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata”.

Facendo proprio l’insegnamento di dottrina autorevole (Scoca), l’Adunanza plenaria accede ad una ricostruzione dell’interesse legittimo che supera di slancio le (ormai risalenti) incertezze che avevano caratterizzato la descrizione proposta dalle Sezioni Unite nella celebre sentenza n. 500/1999, qualificandolo nei termini di una “posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio … l’interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene”.

Nel concludere il suo excursus, l’Adunanza plenaria aggiunge un’ulteriore notazione in merito all’autonomia delle due azioni, sottolineando che “alla stregua dell’inciso iniziale del comma 1 dell’art. 30, salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo (segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione”.

Da tale previsione il Consiglio di Stato riconferma in via indiretta l’esistenza di un’azione di condanna al facere dell’Amministrazione, non proponibile disgiuntamente dall’impugnazione dell’atto, accanto alla quale si pone la domanda risarcitoria (per equivalente), proponibile in via autonoma rispetto al rimedio caducatorio.

L’ampia ricostruzione sistematica operata dall’Adunanza plenaria risponde non solo all’esigenza di fornire il proprio autorevole orientamento sull’assetto processuale all’indomani dell’entrata in vigore del c.p.a., ma costituisce la dovuta premessa all’esposizione delle successive argomentazioni riguardanti il rapporto tra (omessa) impugnazione dell’atto e (infondata, salve eccezioni) richiesta di tutela risarcitoria.

L’accertata autonomia dell’azione, infatti, sicuramente comporta il superamento del tradizionale orientamento giurisprudenziale che qualificava come inammissibile la pretesa.

Ciò non toglie, tuttavia, che l’omessa impugnazione dell’atto possa comunque assumere rilievo nel merito, ossia nell’ambito del giudizio sulla sussistenza di tutti gli elementi tipici al ricorrere dei quali è possibile disporre il risarcimento del danno.

In questo senso, è palese l’apprezzamento espresso dal Consiglio di Stato per la soluzione normativa che “ha suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per l’annullamento”. E, in effetti, non si dubita che la formulazione dell’art. 30, co. 3, c.p.a., laddove prevede che nel determinare il risarcimento “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti“, recepisce i principi generali sanciti dall’art. 1227, co. 2 c.c.

Tanto ciò è vero che la soluzione oggi consacrata nel c.p.a. viene ritenuta dall’Adunanza plenaria applicabile anche alle fattispecie antecedenti alla riforma: secondo il Consiglio di Stato, “entrambi i principi affermati dal d.lgs. n. 104 del 2010 – quello dell’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e quello dell’operatività di una connessione sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria – sono ricavabili anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del codice”.

In questo contesto, richiama la nota figura della cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza per affermare, nonché le più recenti elaborazioni del concetto di abuso del diritto, per giungere ad affermare che “il divieto di abuso concerne, oltre che la fase fisiologica del rapporto, anche quella patologica: il creditore, cioè, deve cooperare col debitore non solo per agevolare l’adempimento, ma anche per non aggravare la sua posizione una volta che si è verificata la violazione dell’impegno obbligatorio. E tanto si ricava proprio dal secondo comma dell’art. 1227 c.c., il quale impone a colui che abbia subito l’inadempimento (o il fatto illecito) di porre in essere in base a buona fede anche comportamenti attivi, entro i limiti del sacrificio non apprezzabile, per evitare l’aggravamento del danno”. Da ciò, l’Adunanza plenaria fa discendere il principio per cui “anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno”.

Nel giudizio amministrativo, quanto appena affermato implica che “la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136)” .

In altri termini, secondo il Consiglio di Stato ” la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile”. Ovviamente, il principio generale testé enunciato non vale in quelle fattispecie in cui la decisione di proporre l’azione di annullamento sia espressione di una scelta ragionevole ovvero nelle ipotesi in cui “l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione”, come ad esempio quando il provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, comma 3, del codice del processo amministrativo), il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita desiderato.

Ad. Plen. n. 3 del 2011

A cura di Filippo Degni