ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO 4 AGOSTO 2011, N. 17

01.05.2011

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 17 del 2011 assume particolare rilievo in quanto destinata ad offrire un (si auspica definitivo) chiarimento in merito ai limiti posti alle società partecipate (in misura totalitaria o maggioritaria) da soggetti pubblici nella partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica. La questione interpretativa collegata all’effettiva portata del d.l. n. 223 del 2006, infatti, aveva dato luogo a contrasti all’interno della giurisprudenza formatasi in seno della V Sezione.

Come noto, l’art. 13 del d.l. n. 223  del 2006, il c.d. “decreto Bersani”, prevede alcune limitazioni nei confronti delle società partecipate da Enti territoriali (Regioni, Province, Comuni) per lo svolgimento di funzioni amministrative o attività strumentali alle stesse. In particolare,

A norma del comma 1, tali soggetti, di regola istituiti dagli Enti territoriali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività degli stessi soggetti istitutori per lo svolgimento “esternalizzato” di funzioni amministrative di loro competenza, non possono erogare prestazioni a favore di altri soggetti (pubblici o privati) e, quindi, non possono nemmeno partecipare a procedure ad evidenza pubblica indette da alte Amministrazioni. Tale divieto non opera, tuttavia, con riferimento ai servizi pubblici locali, nonché, negli altri casi consentiti dalla legge.

La ratio della norma è quella di evitare possibili alterazioni della concorrenza e di assicurare la parità degli operatori, in quanto le società in questione, in considerazione della loro particolare compagine sociale, potrebbero beneficiare dei vantaggi tipici dei soggetti pubblici, pur operando in contesti di mercato concorrenziale, con evidenti distorsioni nel confronto con altri operatori privati tout court.

A questo proposito, l’Adunanza plenaria non manca di ricordare come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 326 datata 1 agosto 2008, aveva prospettato la distinzione fra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d’impresa” di enti pubblici, affermando che entrambe “possono essere svolte attraverso società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione”, ma solo nel secondo caso “vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti) in regime di concorrenza”. Le norme contenute nel decreto Bersani, quindi, rafforzano la separazione tra le due sfere di attività, al fine di impedire ad un soggetto, che svolge attività amministrativa, di esercitare contemporaneamente anche attività d’impresa, “beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione”. La Corte Costituzionale ha precisato altresì che “il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società o enti sia complementare rispetto alle disposizioni considerate, essendo volto ad evitare che le società in questione svolgano, indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse”; il che non impedisce agli Enti territoriali di “detenere qualsiasi partecipazione o di aderire a qualsiasi ente, ma solo di detenere partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse”.

Sulla scorta della ricostruzione formulata dalla Corte Costituzionale si è formato l’indirizzo giurisprudenziale della Sezione Quinta (22 marzo 2010, n. 1651), secondo il quale la “limitazione alla legittimazione negoziale delle società strumentali si riferisce a qualsiasi prestazione a favore di soggetti terzi rispetto agli enti costituenti, partecipanti o affidanti, senza che a nulla rilevi la qualificazione di tale attività”, assumendo rilievo decisivo, l’oggetto sociale delle imprese partecipanti. Il divieto è ulteriormente temperato in considerazione dell’esclusione prevista dall’art. 13 del d.l. n. 223 dei 2006 relativa alla gestione dei servizi pubblici locali. Osserva l’Adunanza plenaria, sotto tale profilo, che anche l’ordinamento comunitario non osta in via generale a che imprese partecipate da soggetti pubblici partecipino alle gare, occorrendo semmai che le stazioni appaltanti valutino con particolare attenzione se l’offerta presentata non sia congrua rispetto ai valori di mercato in conseguenza dei benefici propri del soggetto pubblico.

Nella pratica, tuttavia, l’applicazione della distinzione tra società strumentali (ossia destinate a produrre beni e servizi ad esclusivo favore del soggetto istitutore) e società a partecipazione pubblico-privata, in cui gli Enti territoriali assumono la posizione di un azionista di una società di capitali ha dato luogo ai richiamati contrasti giurisprudenziali. Se, infatti, un primo orientamento ha ritenuto che il divieto posto dal decreto Bersani si applichi solo alla prima categoria di soggetti, alcune decisioni hanno esteso il divieto anche alle c.d. “società di terzo grado (non costituite da enti pubblici e non destinate a soddisfare esigenze strumentali della P.A.) ove l’assunzione avvenga comunque con una quota di capitale pubblico”, ovvero a tutti i soggetti titolari di affidamenti diretti (ancorchè preceduti da gara per la scelta del socio). Altre decisioni hanno individuato il criterio discretivo nella “specifica missione strumentale della società rispetto all’ente che l’ha costituita o la partecipa per giustificare il divieto legislativo di operare per altri soggetti pubblici o privati”, mentre alcune decisioni ancor più restrittive hanno stabilito che il divieto posto riguardi non solo le società strumentali ma anche quelle partecipate da queste ultime per attività non strumentali.

Nel decidere la controversia rimessa dalla sezione Quinta, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che la società esclusa dalla gara non soggiacesse al divieto posto dall’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, in quanto priva di un oggetto sociale esclusivo né operante alcuna attività per effetto di affidamenti diretti di qualsiasi genere. Il fatto, poi, che la società esclusa fosse controllata da altra società mista incaricata della gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica, di cui sono soci numerosi enti locali e che quindi sia, è stato ritenuto parimenti irrilevante ai fini dell’applicazione del divieto, dal momento che l’oggetto sociale della società mista è circoscritto all’erogazione di servizi al pubblico, non risultando, per converso, alcuna riserva di attività a favore di qualche Amministrazione pubblica locale. Non solo: la stessa società ha scorporato, mediante cessione di ramo d’azienda, l’attività riguardante il servizio pubblico locale di illuminazione pubblica ad una nuova società mista, costituita previa gara pubblica, e per quanto riguarda il servizio di distribuzione di gas naturale, risulta affidataria, attraverso una controllata in regime transitorio ex art. 15, co. 10, d.lgs n. 164 del 2000, del servizio di distribuzione di gas naturale nel territorio di alcuni Comuni soci.

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, tale soggetto non può essere quali facto nei termini di una società strumentale per l’attività istituzionale dei Comuni soci difettandone i requisiti tipici di questa figura; con tutto quel che ne segue sotto il profilo della inapplicabilità del divieto di partecipazione alle gare pubbliche previsto ex art. 13 del d.l. n. 223 del 2006.

L’Adunanza plenaria, peraltro, ha precisato come non si possa giungere a diverse conclusioni nemmeno richiamando l’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008 (e successive modificazioni) in materia di affidamento in concessione dei servizi pubblici locali perché tale norma , pur ponendo divieti e limiti di partecipazione a gare pubbliche in materia di servizi pubblici locali e a garanzia del principio di concorrenza, limita la sua portata ai soli soggetti che siano effettivamente titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali, circostanza che, nella fattispecie non ricorre.

Opportunamente, l’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., ha deciso di affrontare anche il quesito relativo all’estensione del divieto di cui all’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 anche ad una impresa partecipata da un’altra impresa, a sua volta controllata da un’amministrazione pubblica.

In questa prospettiva, il Consiglio di Stato ribadisce che il presupposto per l’eventuale applicazione della norma anche nei confronti delle società c.d. di terza generazione (ossia soggetti partecipati in via indiretta o mediata, non costituiti da Amministrazioni e non sono finalizzate a scopi strumentali) consiste nello svolgimento da parte della società costituita o posseduta dall’ente territoriale di servizi strumentali per lo stesso. In questa ipotesi, infatti, la finalità tipica del d.l. n. 223, ossia quella “di evitare effetti distorsivi della libera concorrenza”, impone il divieto di partecipazione alle gare alle società strumentali ad altre società. Tale conclusione si fonda sulla condivisibile osservazione per cui “l’alterazione della libera concorrenza può realizzarsi anche in via mediata, ossia fruendo dei vantaggi derivanti dall’investimento del capitale di una società strumentale in altro soggetto societario costituito con finalità neppure indirettamente strumentali, ma anzi intrinsecamente imprenditoriali”. Aggiunge, inoltre, il Consiglio di Stato come tale principio sia desumibile anche dalla citata sentenza della Corte costituzionale, in cui il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società è espressione dell’esigenza di “evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, attività loro precluse”. Il descritto divieto, tuttavia, non opera indiscriminatamente, ma si riferisce alla sola detenzione di partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse. Altrimenti argomentando, infatti, si ammetterebbe l’utilizzo di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica così concretizzando, sia pure indirettamente, l’elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata.

Ad. Plen. n. 17 del 2011

A cura di Filippo Degni