L’inchiesta parlamentare nel diritto comparato, a cura di Renzo Dickmann, collana Studi di federalismi.it, Jovene, 2009

21.07.2009

Il volume, curato da Renzo Dickmann – consigliere della Camera dei deputati – e presentato da Beniamino Caravita, si propone di offrire una rassegna comparata sull’istituto dell’inchiesta parlamentare, con l’ambizione di tracciare un quadro omogeneo e completo sui suoi fondamenti giuridici e sull’esperienza applicativa.
Il libro si articola in saggi centrati ciascuno su un Paese e poi in una chiusa riassuntiva del curatore, cui pure si devono i saggi sulla Francia e sulla Spagna.
Si tratta di un’iniziativa scientifica pregevole. La scelta di metodo è quella di esaminare nei vari ordinamenti la base giuridica dell’inchiesta, i modi e i poteri delle indagini, i rapporti con l’esecutivo e il giudiziario e l’esito dell’inchiesta stessa. Questa metodologia espositiva, comune a tutti i saggi, appare corretta e facilita la lettura e la comprensione.
Particolarmente interessante risulta la ricognizione delle fonti costituzionali dell’inchiesta parlamentare: se ne trae che è proprio la formula italiana (all’art. 82) che offre la base più meditata e completa, mancando invece – per esempio – nelle disposizioni della Costituzione austriaca e belga un’indicazione precisa su moduli e limiti del relativo potere parlamentare, senza dire che nel Regno Unito e negli Stati Uniti una norma espressa sull’inchiesta parlamentare manca del tutto.
A conclusione del volume, nondimeno, il lettore resta in qualche misura inappagato: dietro la formale e ordinata coerenza degli elaborati, la prosa restituisce un senso d’incompiutezza. Proprio perché taluni degli autori (come, del resto, anche chi scrive) hanno esperienza diretta di commissioni parlamentari d’inchiesta, ci si sarebbe potuti aspettare testimonianze più schiette ed efficaci sui veri problemi dell’istituto.
Partendo dall’assunto – forse non sufficientemente chiarito nel saggio sul Regno Unito – che anticamente inchiesta parlamentare e processo penale non erano neanche ben distinti, l’aspetto centrale del problema è sapere se le inchieste parlamentari possano svolgere attività direttamente incisive sui diritti individuali delle persone e, se sì, perché e come.
Il tema – per vero – non sfugge a tutti gli autori. I saggi sulla Francia e la Germania lo accennano nel paragrafo sui rapporti tra inchiesta parlamentare e potere giudiziario, senza poi approdare ad alcun chiarimento; quelli sulla Polonia e sugli Stati Uniti lo evocano, sia pure timidamente.
Qui si partirà dagli Stati Uniti per coerenza cronologica.
Il caso fondamentale (citato in nota, v. pag. 160) è McGrain v. Daugherty della Corte Suprema del 1927. Mally S. Daugherty era il fratello di una persona nei cui confronti il Senato procedeva con l’inchiesta. Chiamato a deporre, si rifiutò. Fu pertanto arrestato su ordine del Senato. Il caso venne esaminato dalle giurisdizioni di tutti i gradi. La Corte Suprema fissò infine il principio che, se l’atto istruttorio richiesto è legittimo nell’ottica del corretto esercizio dei poteri legislativi, il Senato ha il potere di usare mezzi coercitivi.
Se ne trae che l’inchiesta congressuale può incidere sui diritti costituzionali delle persone ma sotto il controllo giurisdizionale. E’ questo l’aspetto decisivo che – a parere di chi scrive – poteva essere meglio sottolineato, pur se si deve riconoscere che il saggio lo rimarca successivamente, imputando il concetto alla precedente sentenza Kilbourn v. Thompson del 1881.
Nel saggio sulla Polonia, questo fondamentale aspetto è solo abbozzato (v. la nota 9 a pag. 78), mentre l’episodio più significativo di quell’esperienza poteva essere meglio illustrato. Era accaduto che, sotto l’impulso della maggioranza di governo, la Sejm (la Dieta polacca), nel marzo 2006 aveva costituito una commissione d’inchiesta sul settore bancario, con il dichiarato scopo di svelare la compagine sociale degli istituti di credito e le dinamiche di trasformazione di tali enti, oltre che l’attività di vigilanza della competente autorità. In tale contesto, di fatto, la maggioranza in seno alla commissione d’inchiesta intendeva portare alla luce l’eventuale passata militanza politica degli esponenti aziendali e degli azionisti delle banche. Nel perseguire questo obiettivo, la risoluzione istitutiva della commissione d’inchiesta pretendeva di indagare a raggio amplissimo, sequestrando documenti e assumendo testimonianze senza un limite definito nell’oggetto ma solo nello scopo. Era pertanto chiaro che l’inchiesta era un pretesto per incidere sulla libertà morale e sul diritto di proprietà documentale dei terzi.
Su ricorso dell’allora minoranza parlamentare, la Corte costituzionale polacca si è pronunciata sulla risoluzione istitutiva della commissione. Tanto è avvenuto sulla base di un mutamento di indirizzo interpretativo da parte della Corte polacca, la quale sino ai primi anni Novanta aveva ritenuto che il suo potere di sindacato fosse limitato ad una serie chiusa di atti parlamentari tipici (essenzialmente quelli con valore di legge), dalla quale escludeva le risoluzioni. La sentenza – che ha suscitato scalpore perché ha accolto il ricorso e annullato la risoluzione – ha chiaramente avuto il merito di porsi il dilemma delle tutele dei singoli di fronte alle inchieste parlamentari.
Si viene così all’Italia. Quando l’art. 82 Cost. precisa che le indagini e gli esami dell’inchiesta parlamentare si svolgono avvalendosi dei medesimi poteri e con gli stessi limiti dell’autorità giudiziaria, stabilisce che – secondo la fondamentale intuizione di Manzella (Il Parlamento, Mulino, Bologna, 1991) – il cittadino di fronte alla commissione parlamentare non può stare in una situazione peggiore che di fronte all’autorità giudiziaria vera e propria (è questo il significato pieno del principio del parallelismo).
Ora, il saggio – pur accurato – dà conto di atti di inchieste parlamentari invasivi della sfera costituzionalmente tutelata delle persone ma non affronta il problema del relativo fondamento o dei rimedi. Quando una commissione d’inchiesta ordina – ed esegue tramite gli ufficiali di polizia ad essa addetti – un accesso forzoso in un fondo, una perquisizione, un sequestro o, addirittura, un accompagnamento coattivo di una persona, dove ne trae il potere? E che può fare il destinatario del provvedimento? E che cosa possono fare eventualmente i contro-interessati?
Il saggio si limita a rendere edotto il lettore – ancora una volta in nota – che nella XVI legislatura due commissioni bicamerali d’inchiesta (sulla mafia e sui rifiuti) sono state espressamente private dalla legge istitutiva dei poteri incisivi di talune libertà fondamentali, ma non spiega compiutamente il perché e non si sbilancia in un giudizio su tale previsione limitatrice; e cita il caso risolto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 28 del 2006 (cfr. pagg. 68, nota 24, e 72, nota 38) ma non sembra volerne cogliere il vero senso.
Era accaduto che la commissione d’inchiesta Alpi-Hrovatin aveva disposto in autonomia un atto istruttorio irripetibile sulla vettura su cui – asseritamente – erano stati uccisi giornalista e cineoperatore, senza consentire alla procura di Roma di assistere all’atto, in contemporanea e ai suoi propri fini investigativi. La Corte costituzionale ha annullato l’atto dell’inchiesta parlamentare su ricorso della procura di Roma, rubricando il fatto come una mancanza di leale collaborazione. Ma la verità è che i soggetti lesi erano i parenti delle vittime, cui – in ipotesi – era stato tolto un elemento di prova, loro utile, forse, come parti civili.
Inoltre, la sentenza 28 del 2006 (come già la 231 del 1975) ci dice che è proprio il conflitto tra poteri il rimedio per i terzi: se costoro si sentono lesi da un provvedimento dell’inchiesta parlamentare che ritengono ingiustamente invasivo della loro sfera dovranno impugnarlo davanti all’autorità giudiziaria, la quale a sua volta non potrà denegare loro giustizia sic et simpliciter (come fece la Cassazione nel caso dell’inchiesta sulla P2 nel 1983-84, andando incontro ai legittimi rilievi di Pace, in Giur. cost., 1984): dovrà elevare conflitto o motivare sul perché non ritiene di elevarlo. In Italia non vale il principio della sentenza americana McGrain ma c’è almeno il conflitto tra poteri.
Peraltro, ancora a questo proposito, il saggio sull’Italia non risponde a un altro rilevante quesito: nel caso di commissione monocamerale (id est istituita con delibera di una sola Camera), può il regolamento interno prevedere rinvii a norme penali incriminatrici? Spesso nei regolamenti interni delle inchieste parlamentari è previsto che il teste reticente o menzognero risponderà ai sensi dell’art. 372 c.p. Che un simile rinvio sia contenuto in una legge istitutiva è rispettoso dell’art. 25, secondo comma, Cost. Non altrettanto – con ogni probabilità – se quel rinvio è contenuto in un atto che forza di legge non ha.

recensione a cura di Marco Cerase