La Corte di giustizia precisa l’estensione della protezione sussidiaria offerta dalla direttiva 2004/83/CE

19.04.2009

Con una sentenza del 17 febbraio 2009, la Corte di giustizia ha avuto modo di pronunciarsi sulla direttiva del Consiglio del 29 aprile 2004 recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. L’art. 18 di detta direttiva stabilisce che “[g]li Stati membri riconoscono lo status di protezione sussidiaria a un cittadino di un paese terzo o a un apolide ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria”, mentre l’art. 2 individua i beneficiari di tale status in ciascun “cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito all’articolo 15”. Tale ultima disposizione fissa, ai fini contemplati dall’art. 2, la nozione di danni gravi, considerando tali: “a) la condanna a morte o all’esecuzione; o b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
La sentenza della Corte nasce da un rinvio pregiudiziale di cui l’ha investita il Raad van State olandese. All’origine della causa vi è la richiesta che i coniugi Elgafaji, cittadini iracheni, avevano rivolto, in data 13 dicembre 2006, al Ministro per l’immigrazione e l’integrazione al fine di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo in base all’art. 29 della legge olandese sugli stranieri, secondo cui “[u]n permesso di soggiorno temporaneo […] può essere concesso allo straniero […] b) che ha fornito fondati motivi per ritenere che, in caso di espulsione, correrebbe un rischio effettivo di essere sottoposto a tortura, ovvero a pene o a trattamenti inumani o degradanti; […] d) il cui ritorno nel paese di origine, a giudizio del Ministro, sarebbe una misura di particolare gravità in considerazione della situazione generale nel paese in questione”. Con decisioni del 20 dicembre 2006, il Ministro ha ritenuto che i coniugi non avessero provato il rischio effettivo di una minaccia grave e individuale, necessario, secondo l’art. 29 della legge olandese, affinché potesse essere concesso il permesso di soggiorno temporaneo. In particolare, il Ministro ha ritenuto che, anche interpretando l’art. 29 citato alla luce dell’art. 15, lett. c) della direttiva 2004/83 (si noti che tale direttiva, il cui termine di attuazione scadeva il 10 ottobre 2006, è stata attuata tardivamente dai Paesi Bassi, con una serie di provvedimenti entrati in vigore nell’aprile 2008), l’accesso alla protezione offerta dalle norme olandesi non potrebbe comunque sfuggire alla prova dell’esistenza di un rischio “individualizzato”, non essendo sufficiente per beneficiarne una indiscriminata situazione di violenza nel paese di destinazione dei richiedenti. Le decisioni venivano impugnate presso il Rechtbank te’s-Gravenhage, il quale le annullava, sostenendo che il Ministro avrebbe dovuto applicare non già la lett. b) del menzionato art. 29 della legge olandese, bensì la lett. d), la quale peraltro, “letta” alla luce dell’art. 15, lett. c) della direttiva 2004/83, non richiede un alto grado di individualizzazione della minaccia ai fini della concessione della protezione e, dunque, del permesso di soggiorno temporaneo richiesto dai coniugi Elgafaji.
Lo Staatssecretaris van Justitie (cui nel frattempo erano state trasferite le competenze relative al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria) proponeva appello avverso la sentenza del Rechtbank presso il Raad van State. Quest’ultimo, ritenendo che le disposizioni della direttiva presentassero delle difficoltà interpretative, decideva, in base all’art. 68 TCE, di investire la Corte di giustizia delle seguenti questioni pregiudiziali: “1) Se l’art. 15, (…) lett. c), della direttiva (…) debba essere interpretato nel senso che tale disposizione offre protezione esclusivamente in una situazione contemplata anche dall’art. 3 della [CEDU], nell’interpretazione ad esso attribuita dalla giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, ovvero se la menzionata disposizione offra una tutela sussidiaria o diversa da quella di cui all’art. 3 della [CEDU]; 2) Qualora l’art. 15, (…) lett. c), della direttiva offra una tutela sussidiaria o diversa da quella di cui all’art. 3 della [CEDU], quali siano in tal caso i criteri idonei a valutare se una persona che afferma di essere ammissibile allo status di protezione sussidiaria corra un rischio effettivo di minaccia grave ed individuale in conseguenza di violenza indiscriminata, ai sensi dell’art. 15, (…) lett. c), in combinato disposto con l’art. 2, (…) lett. e), della direttiva”.
La Corte, in primo luogo, corregge il giudice a quo affermando che il quesito pregiudiziale va sciolto unicamente sulla base delle norme comunitarie, non rilevando a tale proposito l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo i giudici di Lussemburgo, infatti, “benché il diritto fondamentale garantito dall’art. 3 della CEDU faccia parte dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte assicura il rispetto e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo venga presa in considerazione nell’interpretare la portata di tale diritto nell’ordinamento giuridico comunitario, tuttavia è l’art. 15, lett. b), della direttiva che sostanzialmente corrisponde al detto art. 3” (par. 28). Al contrario, ciò che rileva nella causa principale è la lett. c) dell’art. 15 di detta direttiva, il quale ha un “contenuto diverso” da quello dell’art. 3 della CEDU.
La Corte, seguendo peraltro le conclusioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro (par. 25 ss.), afferma che l’ipotesi contemplata dalla lett. c) dell’art. 15 della direttiva 2004/83 (“la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”) riguarda il rischio di un danno più generale, e quindi meno “individualizzato”, rispetto a quello cui alludono le precedenti lettere a) e b). Vari sono gli argomenti su cui la Corte fa leva: intanto, la lett. c) si riferisce ad una minaccia in senso generico, mentre le due precedenti contengono una specifica qualificazione del rischio (la condanna a morte o all’esecuzione o, rispettivamente, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante); inoltre, detta minaccia proviene da una generale situazione di conflitto armato; infine, la violenza da cui la minaccia discende è, secondo la lett. c), indiscriminata, “termine che implica che essa possa estendersi ad alcune persone a prescindere dalla loro situazione personale” (par. 34). La Corte aggiunge pure che la circostanza che la minaccia debba essere “individuale” non implica affatto che essa dipenda dall’identità di un individuo. Per usare le parole dell’Avvocato generale, “anche se una persona non è esposta a minacce a causa di caratteristiche che le sono proprie, non risulterà meno individualmente interessata qualora una violenza indiscriminata aumenti sostanzialmente il rischio di subire in modo grave un danno alla propria vita o alla propria persona, altrimenti detto, ai suoi diritti fondamentali” (par. 35). Peraltro, lo stesso Avvocato generale precisa che la prova che l’individuo richiedente lo status di protezione sussidiaria, in base a detto art. 15, lett. c), deve fornire in merito al rischio derivante da una situazione di violenza indiscriminata dovrà essere particolarmente significativa. Infatti, il ventiseiesimo considerando della direttiva afferma che “[i] rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave”. Ciò significa, nelle parole della Corte, che l’ipotesi “caratterizzata da un grado di rischio a tal punto elevato che sussisterebbero fondati motivi di ritenere che tale persona subisca individualmente il rischio in questione”, deve considerarsi “eccezionale” (punto 37), ciò che, per altro verso, è confermato proprio dalla natura sussidiaria della protezione offerta dalle norme comunitarie.
Infine, dopo avere fornito l’interpretazione richiesta dal giudice a quo, la Corte ne ribadisce la rilevanza ai fini della soluzione della causa principale, richiamando una sua consolidata giurisprudenza. Infatti, essa afferma che, “anche se l’art. 15, lett. c), della direttiva è stato trasposto esplicitamente nell’ordinamento giuridico nazionale solo dopo i fatti all’origine della controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio, spetta a quest’ultimo cercare di procedere ad un’interpretazione del diritto nazionale, in particolare dell’art. 29, n. 1, lett. b) e d), della Vw 2000 [la legge olandese sugli stranieri], che sia conforme a tale direttiva” (punto 41).
a cura di Francesco Cherubini