La Corte di giustizia riconosce (definitivamente) che, per poter godere del diritto di circolazione e soggiorno, il familiare extracomunitario di un cittadino comunitario non deve avere previamente soggiornato legalmente in uno Stato membro

11.08.2008

La Corte di giustizia, con la sentenza in oggetto (sentenza del 25 luglio 2008, causa C-127/08, Blaise Baheten Metock e altri c. Minister for Justice, Equality and Law Reform), è tornata su un tema già affrontato, con esiti per la verità differenti, in due precedenti pronunce: la sentenza del 23 settembre 2003, causa C-109/01, Secretary of State for the Home Department c. Hacene Akrich, e la sentenza del 9 gennaio 2007, causa C-1/05, Yunying Jia c. Migrationsverket. Con la prima – peraltro fortemente criticata in dottrina – la Corte ha affermato che, per poter fruire dei diritti di circolazione e soggiorno, il familiare extracomunitario di un cittadino comunitario doveva aver soggiornato legalmente nel territorio di un qualunque Stato membro, con ciò, in verità, prevedendo una condizione che la normativa comunitaria allora vigente (il regolamento 1612/68) non menzionava neppure. Per la verità, si trattava allora di stabilire se l’estensione del principio enunciato in una precedente pronuncia (la sentenza del 7 luglio 1992, causa C-370/90, The Queen c. Immigration Appeal Tribunal e Surinder Singh, ex parte Secretary of State for Home Department, nella quale la Corte aveva affermato che le norme comunitarie sul ricongiungimento familiare si applicano anche nel caso in cui il cittadino comunitario faccia ritorno nel proprio paese d’origine, a patto che abbia precedentemente usufruito delle libertà comunitarie di circolazione e soggiorno), fosse tale da consentire al familiare, precedentemente espulso dal paese di origine del lavoratore, di seguire costui verso quello stesso paese. La Corte aveva allora negato che la giurisprudenza Singh potesse essere sospinta fino a tale significato, precisando, tuttavia, che siffatto indirizzo restrittivo andava circoscritto alla particolare situazione in causa. In effetti, proprio con la successiva sentenza Jia, poc’anzi menzionata, la Corte ha avuto modo di ridimensionare la portata della sentenza Akrich, senza tuttavia capovolgerla espressamente.
Con il rinvio da cui è scaturita la sentenza in oggetto, il giudice nazionale intendeva sapere se la direttiva 2004/38, che ha sostituito il regolamento 1612/68 (anche) nella disciplina del ricongiungimento familiare, «consenta ad uno Stato membro di prevedere un requisito generale secondo cui, per poter beneficiare delle disposizioni di detta direttiva, il coniuge extracomunitario di un cittadino dell’Unione deve avere soggiornato legalmente in un altro Stato membro prima di giungere nello Stato membro ospitante» (punto 47). In altre parole, il giudice chiedeva alla Corte di tornare sulla giurisprudenza Akrich, confermandone la portata anche in relazione alla nuova disciplina.
La Corte rammenta come nessuna disposizione della direttiva condizioni il ricongiungimento familiare al previo soggiorno regolare in un altro Stato membro – analogamente, per la verità, al regolamento 1612/68. E anzi, la Corte sottolinea come la circostanza che l’art. 5, n. 2, della direttiva «preveda l’ingresso, nello Stato membro ospitante, di familiari di un cittadino dell’Unione sprovvisti di carta di soggiorno pone in evidenza che la direttiva 2004/38 può applicarsi parimenti ai familiari che non soggiornavano già legalmente in un altro Stato membro» (punto 52). E come pure l’art. 10, n. 2 della stessa direttiva, «il quale elenca in via tassativa i documenti che i cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, possono essere tenuti a fornire allo Stato membro ospitante al fine di ottenere il rilascio della carta di soggiorno, non prevede la facoltà per lo Stato membro ospitante di richiedere documenti che giustifichino un eventuale previo soggiorno legale in un altro Stato membro» (punto 53). In definitiva, secondo la Corte, la direttiva va interpretata nel senso «che essa si applica a qualsiasi cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione ai sensi dell’art. 2, punto 2, della detta direttiva, il quale accompagna o raggiunge il cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui egli ha la cittadinanza, e gli conferisce diritti di ingresso e di soggiorno in questo Stato membro, senza fare distinzioni secondo che il detto cittadino di un paese terzo abbia già soggiornato legalmente, o meno, in un altro Stato membro» (punto 54).
E tuttavia, la Corte, nell’affermare che tale «interpretazione è corroborata dalla giurisprudenza […] concernente gli atti di diritto derivato in materia di libera circolazione delle persone, adottati anteriormente alla direttiva 2004/38» (punto 55), non può non avvedersi di quanto, al contrario, la sentenza Akrich non corrobori, e anzi contraddica, siffatta interpretazione. La Corte, dunque, in un raro momento di espresso revirement, torna sulla sentenza citata, affermando che la conclusione cui in essa giunge «dev’essere ripensata» (punto 58). «Infatti», spiega la Corte «il godimento di diritti di tal genere non può dipendere da un previo soggiorno legale di un siffatto coniuge in un altro Stato membro» (ibid.). Se – la Corte aggiunge – tale ripensamento investe il regolamento 1612/68, a fortiori il risultato cui esso giunge deve valere per la direttiva 2004/38, in quanto «essa ha lo scopo, in particolare, di “rafforzare i diritti di libera circolazione e soggiorno di tutti i cittadini dell’Unione”, di modo che questi ultimi non possono trarre diritti da questa direttiva in misura minore rispetto agli atti di diritto derivato che essa modifica o abroga» (punto 59).
Né, d’altra parte, la competenza della Comunità a disciplinare l’ingresso e il soggiorno dei familiari extracomunitari del cittadino comunitario può essere negata: tali fattispecie, in effetti, incidono sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e quindi, secondo la Corte, «la denegata concessione, da parte dello Stato membro ospitante, dei diritti di ingresso e soggiorno ai familiari di un cittadino dell’Unione è tale da dissuadere quest’ultimo dallo spostarsi o dal risiedere nel detto Stato membro, anche qualora i suoi familiari non soggiornino già legalmente nel territorio di un altro Stato membro» (punto 64). Ciò determina una conseguenza di assoluta rilevanza (e forse soprattutto in essa va riconosciuta l’importanza della sentenza in oggetto): la Corte, infatti, rispondendo ad alcune obiezioni del Minister for Justice, Equality and Law Reform e alle osservazioni di molti degli Stati intervenuti (secondo cui «gli Stati membri resterebbero competenti in via esclusiva, fatto salvo il titolo IV della terza parte del trattato, a disciplinare il primo ingresso nel territorio comunitario dei familiari di un cittadino dell’Unione che siano cittadini di paesi terzi», punto 66), afferma chiaramente che «la direttiva 2004/38 attribuisce a qualsiasi cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione ai sensi dell’art. 2, punto 2, della detta direttiva, il quale accompagna o raggiunge il citato cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di cui egli ha la cittadinanza, diritti di ingresso e soggiorno nello Stato membro ospitante, a prescindere dal fatto che il detto cittadino di un paese terzo abbia già soggiornato legalmente, o meno, in un altro Stato membro» (punto 70).
Per altro verso, il Ministero in causa, assieme a diversi Stati intervenuti, sostiene che eliminare la condizione del previo soggiorno legale relativamente ai familiari del cittadino comunitario, a fronte di «un panorama contrassegnato da una forte pressione migratoria […], stroncherebbe il potere degli Stati membri di controllare l’immigrazione alle loro frontiere esterne» (punto 71). E non solo: siffatta eliminazione porterebbe a un aumento «enorme» del numero di cittadini di Stati terzi che farebbero ingresso, in virtù delle norme sul ricongiungimento familiare, nel territorio della Comunità. A tale proposito, la Corte rammenta che, da un lato, tale condizione verrebbe meno solo per gli ingressi a titolo di ricongiungimento, mentre, dall’altro, agli Stati rimarrebbe comunque la possibilità di fare leva, per impedire l’ingresso, sulle nozioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica, nonché di adottare ogni misura necessaria di fronte ad abuso o frode, quali i casi di matrimoni fittizi. Da ultimo, la Corte aggiunge – in modo peraltro succinto – che gli Stati membri sono parte della Convenzione di Roma del 1950, il cui art. 8 prevede il rispetto della vita privata e familiare (e che la Corte di Strasburgo ha “utilizzato” proprio per tutelare, a condizioni invero piuttosto restrittive, il diritto al ricongiungimento familiare).
Infine, in risposta a un secondo quesito posto dal giudice nazionale, inteso a conoscere se il diritto al ricongiungimento familiare sia indipendente «dal luogo e dalla data del matrimonio, nonché dalle circostanze nelle quali egli [il familiare] ha fatto ingresso nello Stato membro ospitante» (punto 81), la Corte rileva come nessuna delle disposizioni della direttiva 2004/38 condizioni il diritto al ricongiungimento familiare alla circostanza che il cittadino dell’Unione abbia costituito il proprio nucleo familiare prima del suo trasferimento presso un altro Stato membro. Né – la Corte aggiunge – si può escludere dal ricongiungimento il cittadino di uno Stato terzo che abbia fatto ingresso nel territorio dell’Unione prima di diventare familiare del cittadino comunitario, come pure irrilevante è il luogo in cui il matrimonio è stato contratto.

a cura di Francesco Cherubini