Il ruolo del presidente di Assemblea nella programmazione dei lavori, tra realizzazione del programma di governo e diritti delle minoranze – Resoconto convegno

04.04.2007

Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento

Pisa 2 aprile 2007

Il 2 aprile 2007, nell’aula 3 della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, si è svolto il secondo appuntamento del ciclo di seminari sul tema Dal diritto del Parlamento al diritto dei Parlamenti: il rapporto tra Assemblee elettive ed esecutivi, avente ad oggetto la figura dei presidenti di Assemblea, in particolare nella programmazione dei lavori.

In apertura del seminario, il prof. Andrea PERTICI ha richiamato il filo conduttore del ciclo di seminari, vertente sul rapporto tra esecutivi e assemblee. Per cogliere a pieno le problematiche di fondo, non è possibile sottovalutare l’importanza di un approccio multilivello che conduca a confrontare l’esperienza statale con quelle regionali e del Parlamento europeo. Si assiste infatti a notevoli evoluzioni nel rapporto tra esecutivi e assemblee in tutti e tre i livelli. Basti pensare, per quanto riguarda il caso comunitario, a quanto accaduto due anni fa al momento dell’investitura della Commissione Barroso ed in particolare alle vicende legate alla proposta (e poi alla sostituzione) dell’on. Buttiglione a membro della Commissione. In quella circostanza è venuto in rilievo un ruolo del Parlamento europeo inimmaginabile solo alcuni anni prima.
Il presente seminario ha come punto di osservazione quello dei presidenti di Assemblea, che da sempre risultano figure al centro del dibattito dottrinale e politico. Il raffronto tradizionale è tra due modelli per certi versi opposti, quello statunitense di presidente espressione della maggioranza (emblematicamente desumibile dal fatto che il presidente del Senato è il vicepresidente della federazione, eletto “in ticket” con il presidente) e quello inglese, storicamente simbolo di organo super partes.
In Italia l’esperienza dei presidenti di Assemblea parlamentare si è evoluta con la forma di governo generale e con proprie autonome “svolte”. Se si era partiti da un presidente del Parlamento subalpino espressione della maggioranza governativa, con la scelta effettuata da Crispi di farsi togliere dalla “chiama” si passa ad un modello tendente alla impostazione super partes. Tuttavia, si è ancora ben lontani dallo speaker del modello Westminster e la neutralità non può considerarsi assoluta. Da una parte il presidente deve evitare di assumere un ruolo partigiano nei confronti della maggioranza e garantire il rispetto dei diritti delle opposizioni, dall’altro non può assumere le vesti del paladino dell’opposizione e deve quindi consentire l’attuazione indirizzo politico di maggioranza.
Questo ruolo di mediazione si realizza anche nella programmazione dell’ordine dei lavori, sebbene i gruppi giochino per primi un ruolo determinante. Quello della programmazione dei lavori è però un punto sul quale le esperienze tra i vari livelli divergono sensibilmente: nei Consigli regionali, ad esempio, non esiste ovunque un ruolo analogo.
Il Parlamento europeo, dal canto suo, è ancora troppo distante dai suoi “omonimi” (più che omologhi) nazionali. Al suo interno emerge una figura presidenziale rilevante anche dal punto di vista politico: il presidente del Parlamento europeo può partecipare alla discussione lasciando il proprio scranno. In questo, se paragonato all’esperienza italiana, ricorda più un vicepresidente che a un presidente vero e proprio. Ha però anche poteri rilevanti sui lavori dell’aula, potendo invertire l’ordine lavori, valutare l’ammissibilità emendamenti etc. Infine, si è sviluppato per via di prassi un potere esterno molto forte da parte del presidente del Parlamento europeo: quello di rivolgersi al Consiglio europeo prima delle sue riunioni, cosa che tra l’altro permette anche una “doppia” presenza, oltre al presidente della Commissione, di organi più puramente “comunitari”, facendo sì che il Consiglio europeo non agisca unicamente in base a logiche intergovernative.
In conclusione il relatore ha riservato alcuni accenni alla vexata quaestio della “provenienza” politica del presidente nelle assemblee parlamentari nazionali, in particolare sulla possibilità di affidare una presidenza di Assemblea all’opposizione. Sotto questo profilo sarà interessante confrontarsi con prospettive diverse come i Consigli regionali (dove il presidente è sempre espressione della maggioranza) e con il Parlamento europeo, dove si realizza una turnazione tra esponenti dei due maggiori partiti. Tuttavia nelle legislature del maggioritario emerge, da parte delle forze politiche, una considerazione della presidenza di Assemblea alla stregua di un componente della compagine ministeriale, anche ai fini della ripartizione interna alle forze della coalizione delle cariche di governo.

È intervenuto successivamente il cons. Luigi CIAURRO del Senato della Repubblica, che ha ricordato in apertura come anche la stampa quotidiana mostri ogni giorno il rilievo dei presidenti di Camera e Senato non solo nel dibattito politico generale, ma anche all’interno dei loro stessi partiti di appartenenza. Del resto la situazione non è nuova, essendo simile a quanto avvenne tempo addietro con Fanfani e Saragat, che passarono in poco tempo da cariche di partito a presidenze di Assemblea e viceversa.
Nell’epoca del bipolarismo i presidenti hanno un ruolo di primo piano sulla scena politica. Sin dagli esordi del periodo maggioritario la presidenza Pivetti si mostro decisamente “interventista” e, di fronte a tale “attivismo”, già Paladin e Pizzorusso sollevarono dubbi di opportunità. Anche nella storia prerepubblicana si hanno avvertenze della questione. Pochi anni prima dell’avvento del fascismo vi fu un aspro dibattito tra Giolitti (presidente del Consiglio) e Vittorio Emanuele Orlando (a cui si chiedeva di presiedere la Camera con indirizzi funzionali all’azione dell’esecutivo) sull’autonomia del presidente di Assemblea di fronte al Governo.
La prassi consolidata che vuole che il presidente non partecipi alla votazione, avviata come ricordato in precedenza da Crispi, viene oggi da molti posta in discussione, e tra gli altri, da Sergio Romano, che con un articolo sul Corriere della sera invitava il presidente del Senato Marini a votare. A tali provocazioni, in ogni caso, il presidente del Senato ha sempre risposto in maniera negativa, anche nella cerimonia del Ventaglio della scorsa estate alla presenza dei cronisti parlamentari.
Riprendendo la traccia indicata dal moderatore del dibattito, il cons. Ciaurro ha ricordato un terzo modello di presidente di Assemblea, quello della tradizione franco-belga, in cui egli è visto come strumento per l’attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza. Un ulteriore modello potrebbe poi essere individuato in quello svedese, dove il presidente del Parlamento monocamerale ha funzioni di rilevanza costituzionale.
Dinanzi a questa ricchezza di spunti provenienti dal campo comparato verrebbe da domandarsi se esiste anche un “modello italiano”. Negli anni Sessanta Ferrara proponeva in dottrina una visione dal complesso dei poteri del presidente come prevalentemente finalizzati all’attuazione l’indirizzo del Governo. Tuttavia si tratta di una valutazione determinata anche dal fatto che i presidenti erano sino ad allora erano sempre scelti nella maggioranza di governo, mentre poi per una lunga stagione (dal 1976 al 1994) ci furono presidenze affidate a esponenti del principale partito di opposizione.
Più recentemente, sul finire degli anni Novanta, Di Giovine ha suggerito come si sia instaurato un modello italiano di presidente di Assemblea nel contesto del bipolarismo, per cui il presidente è sì un garante istituzionale, ma accanto a questa imparzialità interna è presente una forte politicità esterna. Converrebbe dunque chiedersi se si stia affermando questo modello, dunque se stia emergendo questo “ibridismo”.
Altre impostazioni dottrinarie hanno condotto ad evidenziare da un lato l’inevitabile forza politica della presidente d’Assemblea (Lanchester), dall’altro l’esigenza di un certo self restrain per svolgere il proprio ruolo con sobrietà e favorire il radicamento della posizione di rappresentanza istituzionale (Iacometti).
Per quanto riguarda l’attività di programmazione, emergono sfumature non indifferenti tra i ruoli dei presidenti della Camere. Il presidente della Camera ha poteri rilevantissimi in questo ambito, ma si muove in un quadro di regole molto dettagliate che lo guidano nella determinazione della programmazione. È esemplificativo che l’ex presidente Violante abbia più volte ricordato l’importanza del “fattore tempo” in fase di programmazione.
Il presidente del Senato ha invece un ruolo diverso. Si muove nella programmazione con disposizioni regolamentari (e interpretazioni delle stesse) che lo lasciano molto più libero.
Passando quindi al ruolo oggi assunto nei rapporti tra maggioranza e opposizione, si potrebbe parafrasare una nota espressione di Nietzsche e sostenere che il presidente di Assemblea sia “una corda tesa tra la tutela delle minoranze e la garanzia per la maggioranza di attuare il suo programma”. Tale impostazione è stata invero differentemente interpretata dalle varie personalità che si sono avvicendate alla carica. Ad esempio, la presidente Iotti, nel suo discorso di insediamento del 20 giugno 1979 che aprì una presidenza destinata a durare oltre un decennio, si impegno “alla più assoluta imparzialità, ad una rigorosa applicazione del regolamento, per la tutela in primo luogo dei diritti delle minoranza ma anche per tutelare il diritto-dovere della maggioranza di attuare il proprio indirizzo”. Si coglie quindi come l’accento principale fosse posto sull’ambito garantistico delle minoranze, e che l’attuazione dell’indirizzo governativo arrivasse quasi in subordine.
In conclusione, potrebbe essere d’aiuto per la definizione del ruolo dei presidenti anche una certa giurisprudenza amministrativa recente, che si è soffermata sul ruolo dei presidenti dei Consigli comunali. Il Consiglio di Stato nel 2002, esprimendosi su una disposizione statutaria comunale che proponeva la revoca del presidente del Consiglio da parte della maggioranza consiliare, sottolineò che, per la sua funzione di garanzia, quest’organo potrebbe essere equiparabile a un presidente di Assemblea parlamentare, la cui funzione neutrale va esercitata non in un rapporto di fiducia con la maggioranza, ma all’interno di una relazione generale di garanzia istituzionale.

La parola è passata successivamente alla cons. Daniela D’OTTAVIO della Camera dei deputati che, riallacciandosi alle tematiche affrontate nell’intervento precedente, ha ricordato come l’on. Iotti, negli anni da presidente della Camera, condusse i lavori con grande autorevolezza e ricevette più critiche dalla maggioranza che dall’opposizione. Il regolamento della Camera infatti, allora come oggi, presenta numerose e dettagliate garanzie per le minoranze. Dinanzi a questo fitto reticolo di norme il presidente della Camera ha certamente un ruolo significativo, ma viene in un certo senso “guidato” nella decisione.
Esempio estremamente calzante in questa prospettiva è costituito proprio dalla programmazione dei lavori, che è forse la più politica delle funzioni del presidente. Se non c’è accordo in Conferenza dei Presidenti di gruppo (alla Camera sono richiesti consensi rappresentativi dei tre quarti dell’Assemblea, ma per prassi si procede per consenso senza votare) dal 1990 la decisione del presidente su programma e calendario è perfettamente sostitutiva della decisione approvata dai gruppi, senza limitazioni temporali di sorta, e quindi è considerata perfettamente equivalente alla decisione dei gruppi e non un “second best”. Tuttavia sono posti dei precisi paletti alla decisione presidenziale in funzione garantistica per le minoranze: deve riservare una parte del tempo di discussione agli argomenti proposti dalle opposizioni, mentre i ddl di conversione di decreti-legge non possono superare la metà del tempo totale. In generale, però è possibile ricordare l’equilibrio con cui i vari presidenti si sono approcciati alla tematica della programmazione: anche presidenti molto esposti politicamente all’esterno, all’interno hanno proposto calendari condivisi, spesso approvati al’unanimità della Capigruppo.
Al Senato invece serve l’unanimità, altrimenti il presidente può avanzare una proposta temporanea da sottoporre alla votazione dell’Assemblea.
La soluzione adottata dalla Camera di attribuire al presidente un ruolo così incisivo è frutto dell’esperienza precedente, in cui l’ostruzionismo sistematico di piccoli gruppi rischiava di paralizzare l’intera attività della Camera, ma non è una funzione condizionata dall’indirizzo politico di maggioranza. L’obiettivo rimane duplice, mantenendo da una parte l’attenzione per l’indirizzo indicato dal Governo e dalla maggioranza, ma anche riconoscimento spazi alla minoranza, salvaguardando innanzitutto la sua principale prerogativa, ovvero il diritto a poter diventare futura maggioranza, come sottolineato in dottrina da Manzella.
In conclusione la relatrice si è soffermata sulla generalizzazione del contingentamento dei tempi di discussione, introdotta con le riforme regolamentari del 1997. Un particolare riferimento è stato dedicato alla norma “transitoria” che impedisce il contingentamento dei tempi per la discussione dei ddl di conversione. Sebbene più volte “minacciato” non è mai stato fatto ricorso a qualche espediente procedurale analogo a quello della “ghigliottina” presente al Senato, anche perché un’operazione del genere avrebbe forse snaturato la figura del presidente, costituendo una forzatura forse eccessiva. Un effetto tuttavia è stato comunque sortito da tale norma, quello di tendere a sconsigliare al Governo di eccedere nella decretazione d’urgenza, visto che l’impossibilità del contingentamento stravolgerebbe costantemente la normale agenda dei lavori.

Il terzo intervento del seminario è stato del dott. Andrea SCRIMALI, funzionario del Parlamento europeo presso la Commissione affari giuridici.
In apertura è stata sottolineata la difficoltà di affrontare il tema del ruolo del presidente del Parlamento europeo nella programmazione dei lavori, anche per le generali peculiarità dell’istituzione-Parlamento europeo che la rende ancora un unicum nel panorama comparato. Infatti la mancanza di una procedura elettorale uniforme nei diversi Stati membri e l’esistenza solo di scarni “principi” comuni su cui si basano i diversi sistemi elettorali, comporta una grande differenziazione tra le legislazioni elettorali nazionali, latrice anche di forti differenze e di conseguenti disomogeneità in seno all’Assemblea. Per fare un esempio, l’elettorato passivo è diverso da Stato a Stato: per l’Italia è parificato a quello della Camera dei deputati, quindi 25 anni, in Francia è 23, in Belgio 21, in Portogallo 18. Ad una composizione eterogenea si affianca poi il problema del multilinguismo, che attualmente vede ben 23 lingue ufficiali.
Dinanzi a queste differenze sembrano del tutto vani gli sforzi di ricondurre l’esperienza UE ai modelli statuali consolidati, anche alla luce del fatto che gli stessi modelli già mostrano crepe a livello nazionale. In secondo luogo, sembra così unico il “modello europeo” da poter costituire esso stesso un esempio per altre esperienze, come sta succedendo per il Mercosur sudamericano.
Successivamente, affrontando la prospettiva di confronto tra Assemblea ed esecutivo, non è immediato identificare a quale organo si debba far riferimento come rappresentante del potere esecutivo. Alla Commissione come “esecutivo comunitario” o agli esecutivi nazionali rappresentati nel Consiglio?
In questo sistema estremamente complesso, la figura del presidente del Parlamento europeo ha tratti di analogia e, insieme, di distinzione da quella dei presidenti di Assemblee nazionali. Per un primo profilo assomma in sé funzioni “classiche” come, ad esempio, quelle di direzione delle sedute e di decisione sull’ammissibilità degli emendamenti. Al contempo, può abbandonare il seggio e partecipare alla discussione come ogni altro parlamentare. Altra particolarità è costituta dal fatto che nell’Ufficio di presidenza egli vota, con un voto determinante in caso di parità.
Più strettamente sull’organizzazione dei lavori è necessario richiamare una caratteristica propria del Parlamento europeo, che nell’organizzazione dei propri lavori persegue la più ampia collegialità non solo al proprio interno, ma anche nel rapporto con la Commissione.
La definizione del progetto di ordine del giorno è affidata alla Conferenza dei presidenti dei gruppi politici. Una particolarità degna di nota è che il gruppo dei non iscritti (omologo al gruppo misto dei Parlamenti nazionali) è rappresentato da due membri, che però non hanno diritto di voto.
La definizione definitiva dell’odg è affidata al plenum, ma discende dal programma legislativo e di governo che contiene le priorità della Commissione. Manca quindi un ruolo decisionale forte del presidente del Parlamento europeo, che non partecipa alla conferenza dei presidenti delle Commissioni, organo che collabora alla definizione del programma legislativo della Commissione.
Un’altra particolarità dell’UE è che non esiste la promulgazione come la conosciamo nel nostro ordinamento, per cui è lo stesso presidente del Parlamento, congiuntamente al presidente pro tempore del Consiglio, a firmare gli atti. Il potere di firma si estende anche agli accordi interistituzionali.
Altro ruolo di rilievo è la sua citata partecipazione alle riunioni del Consiglio europeo.
In conclusione non sembra corretto dire che la figura del presidente del Parlamento europeo sia una figura priva di poteri. Sembra piuttosto che sia una sorta di precipitato delle esperienze nazionali. La sua posizione è forse determinata dalla forza istituzionale intrinseca del Parlamento europeo, che non richiede un ruolo particolarmente forte del suo presidente. Una sostanziale conferma di questa prospettiva sembra venire dalla recente dichiarazione di Berlino sul cinquantennale dei Trattati istitutivi, che si apre con l’affermazione “noi cittadini dell’Unione siamo per nostra felicità uniti”.

L’ultimo intervento, riguardante l’ambito dei Consigli regionali, è stato della dott.ssa Sandra TORRICINI, già segretaria generale del Consiglio regionale della Toscana.
La relatrice ha sottolineato come le innovazioni apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 hanno provocato un rischio di offuscamento dei Consigli a seguito del rafforzamento della posizione delle Giunte (e dei loro presidenti) ma che, da questo punto di vista, forse la Regione Toscana ha rappresentato un caso a sé. Già dall’inizio dell’esperienza regionale, infatti, era l’unica Regione con un forte ufficio legislativo consiliare autonomo dalla Giunta.
Nella VII legislatura regionale (2000-2005), la prima successiva alla riforma, paradossalmente si è visto un rafforzamento del Consiglio e del suo presidente. Il ruolo del presidente del Consiglio toscano è stato molto “ibrido” e caratterizzato anche da un forte rilievo politico, dipendente anche dal fatto che egli era anche presidente della conferenza dei Consigli regionali, sia a livello sia italiano che europeo.
Nello stesso periodo si è avuta l’approvazione del nuovo Statuto e della legge elettorale regionale, provvedimenti che sono in larga parte maturati in seno al Consiglio. Nello specifico, lo Statuto è nato da una Commissione consiliare, tra l’altro guidata da un rappresentante dell’opposizione. La Giunta ha avuto solo una presenza molto discreta nella Commissione statutaria, mentre invece l’opposizione ha rivendicato un proprio ruolo, ottenendo tra l’altro non pochi risultati nel testo giunto ad approvazione. Ad esempio, oltre ad una sistematizzazione di un vero e proprio “statuto dell’opposizione”, vi sono altre disposizioni che vanno in senso di una generale tutela delle minoranza. Ad esempio, l’art. 3 dello Statuto dispone che il presidente della Giunta sia membro del Consiglio, ma che non partecipi alla votazione per l’elezione del presidente del Consiglio e dell’Ufficio di presidenza; inoltre il Consiglio rimane sovrano delle sue competenze in ambito normativo, senza la possibilità da parte della Giunta di accedere a forme di decretazioni d’urgenza o deleghe.
Nell’evoluzione del procedimento di adozione dello Statuto si è inoltre assistiti ad una spiccata iniziativa del presidente del Consiglio regionale successivamente all’impugnazione del testo da parte del Governo, mediante la convocazione (in pieno agosto!) di una Conferenza dei presidenti dei gruppi consiliari per concordare la posizione da assumere e per individuare gli esperti cui affidare la difesa dinanzi alla Corte.
Per quanto concerne la programmazione di lavori, questa è affidata all’ufficio di presidenza integrato dal rappresentante della Giunta, dai presidenti delle Commissioni consiliari e dal portavoce “delle opposizioni” (quest’ultimo previsto dall’art. 10, comma 2, del nuovo Statuto). Altra disposizione del nuovo Statuto rilevante in questa sede è quella che affida al presidente del Consiglio la rappresenta dello stesso Consiglio in giudizio, diversamente da quanto avviene di norma per cui la Giunta rappresenta la Regione in ogni sede. Infine è interessante rilevare che la maggioranza consiliare sia invece minoranza in Ufficio di presidenza.

Giovanni Piccirilli