Formazione della dirigenza pubblica: esperienze a confronto

30.03.2007

Con la presente relazione si vogliono mettere in evidenza alcuni aspetti che sono stati discussi durante il seminario organizzato dalla Luiss Guido Carli in data 6 marzo 2007 intitolato “Formazione della dirigenza pubblica: esperienze a confronto”. In primis è da sottolineare come il legislatore, con Legge FINANZIARIA 2007, abbia inteso procedere a una radicale riforma delle agenzie di formazione della dirigenza pubblica ovvero, giusto a titolo esemplificativo ma non esaustivo, a una soppressione (rectius: razionalizzazione) di numerose Scuole Superiori di Amministrazioni Pubbliche. Fatta tale premessa, i relatori del seminario sono concordi nel ruolo fondamentale della dirigenza pubblica italiana ovvero nel prendere atto come il contributo al progresso del Paese sia mediamente proporzionale a quello che è in grado di offrire l’intero settore pubblico. Proprio su tale specifica problematica ci si è resi conto come in Italia sia difficile ragionare come (rectius: fare) sistema e come sia ancora faticoso superare la dicotomia pubblico-privato proprio perché manca una effettiva formazione dei “quadri” dirigenziali inferiori e superiori. Tra le principali ragioni alla base di tali difficoltà o carenze si possono segnalare: il tipo ed il livello medio di preparazione; meccanismi di accesso effettivi (e non quelli sulla carta); l’età media della dirigenza, se confrontata con quella di altri paesi e del settore privato; lo scarso livello di apertura a professionalità esterne e nuove specializzazioni; la limitata “contendibilità” – su basi trasparenti – delle posizioni dirigenziali; il grado di motivazione e lo spirito di corpo (elementi tradizionalmente trascurati e invece fondamentali, come dimostrano le burocrazie ritenute più efficienti e prestigiose); la diffusa propensione alla selezione avversa e a difendere le rendite di posizione. Per alcuni il problema della inefficienza delle Pubbliche Amministrazioni è la assenza di incentivi. Vi è una grave carenza di controllo sia di qualità/efficacia che di efficienza nelle attività di programmazione della formazione. Sia la normativa che la prassi prevedono vari momenti, anche partecipati, di fissazione degli obiettivi formativi e di scansione dei medesimi. Il punto è nella debolezza delle conseguenti (e concomitanti) azioni di controllo per cui la programmazione rischia di restare formale, non incrociandosi con i risultati ed i costi effettivi. Sotto ogni cielo, o quasi, il rapporto pubblico/privato è in fibrillazione, con marcata spinta alla ridefinizione/negazione dei confini tradizionalmente riconosciuti. Dispersa nella notte dei tempi l’idea che “the king can make no wrong”, superata la convinzione hegeliana della centralità indeclinabile dello stato, tengono il campo profili più incerti, dove l’enfasi sullo stereotipo del servitore dello stato cela con difficoltà la rivendicazione di tecnicismo decisionale, alimentato dalla liturgia declamatoria del ruolo cruciale nella tutela dell’interesse pubblico attraverso il bilanciamento di interessi contrapposti più localizzati. Imparare a decidere non è compreso negli attuali programmi di corso delle scuole interne delle Amministrazioni Pubbliche. Questi programmi partono dalla premessa della necessità esclusiva di un apprendimento della componente competenziale ed esplicita, soprattutto di natura giuridico-normativa e sottovalutano l’aspetto legato alla performance decisionale. Manca in definitiva l’addestramento a sviluppare abilità meta inferenziali di governo delle proprie decisioni in rapporto ai fattori di contesto istituzionale, negoziale, comunicativo e pragmatico. Questa carenza è responsabile di performance sub ottimali ed errori di giudizio che possono pregiudicare l’efficacia della decisione pubblica.

a cura di Ferdinando Belmonte