Criticità a livello regionale nel recepimento delle direttive comunitarie

31.03.2006

Il titolo delle mie considerazioni è assai ambizioso, poiché laddove si parla di criticità a livello regionale delle nuove direttive appalti, l’ambito della riflessione si amplia notevolmente in considerazione delle innumerevoli implicazioni che il recepimento della nuova normativa sugli appalti pubblici comporta nel contesto ordinamentale e normativo vigente.
A scopo esemplificativo, e non assolutamente esaustivo, possiamo tuttavia, ai fini che in questa sede rilevano, catalogare le “criticità” in due tipologie:
1) criticità che potremmo definire “oggettive”, ossia legate alla difficoltà intrinseca in alcuni degli istituti disciplinati nelle nuove direttive n. 17 e n. 18 del 2004, e della conseguente difficoltà di dare a siffatte disposizioni un recepimento coerente con il dettato comunitario e al contempo sufficientemente dettagliato in modo da dare assicurare a tali istituti concreta operatività, coordinamento con la normativa nazionale vigente;
2) criticità che potremmo definire “ soggettive”: ossia strettamente connesse alla identificazione del soggetto deputato al recepimento diretto delle Direttive appalti.
Con specifico riferimento a questo secondo tipo di criticità va infatti rammentato che la riforma del titolo V della Costituzione ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001 ha ampliato notevolmente il potere legislativo delle Regioni.
Secondo la tecnica degli Stati federali, sono espressamente elencate le materie riservate allo Stato. Più precisamente l’art. 117 2° comma indica le materie che restano devolute in via esclusiva allo Stato; il 3° comma quelle rimesse alla legislazione “concorrente” nelle quali lo Stato ha il potere di porre i principi fondamentali cui le Regioni devono attenersi nella emanazione della legislazione di dettaglio; il 4° comma affida alle Regioni la potestà legislativa in tutte le altre materie.
Tra le materie riservate alla competenza statale, rientrano, tra le altre, la tutela della concorrenza, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Non essendo ricompresa all’interno degli elenchi delle materie che l’art. 117 affida alla legislazione statale esclusiva o concorrente, in forza della clausola residuale, la materia dei lavori pubblici è rimessa alla competenza esclusiva regionale.

Tuttavia, considerata la non facile riconducibilità delle materie di competenza statale (pensiamo alla tutela della concorrenza) a settori specifici ed organici, si è manifestato nel corso di questi mesi un clima di tensione – accentuato in questi giorni dalla stesura del Codice Unico sugli appalti di lavori servizi e forniture, approvato il 24 marzo 2006, con il quale si recepiscono le direttive comunitarie 17/2004 e 18/2004 (conosciuto anche come Codice De Lise) – dettato dalla preoccupazione delle Regioni per la invasività del legislatore nazionale a scapito delle competenze regionali.
Né la tensione si è attenuata per effetto degli interventi della Corte costituzionale, chiamata a rispondere circa la costituzionalità dell’art. 24, commi 1, 2, 4, 5 e 9, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003) in riferimento all’art. 117 della Costituzione, con la sentenza del 15 novembre 2004, n. 345 ha ritenuto che la competenza prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (secondo cui spetta allo Stato legiferare in via esclusiva in tema di tutela della concorrenza), costituisce una competenza trasversale, la quale, avendo natura funzionale (si individuano, cioè, delle finalità, in vista delle quali la potestà legislativa statale deve essere esercitata), legittima l’intervento del legislatore statale anche su materie di competenza regionale. Tale intervento, però, per essere ritenuto legittimo, dev’essere contenuto entro i limiti dei canoni di adeguatezza e proporzionalità rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza, diversamente, costituirebbe una illegittima compressione dell’autonomia regionale.
Neppure ha fugato i dubbi esistenti in materia di riparto di competenze il parere del Consiglio di Stato reso sullo schema di codice sugli appalti pubblici; infatti, nel tentativo di identificare con maggior chiarezza le competenze dello Stato e delle Regioni, il Consiglio di Stato ha individuato in primo luogo i profili normativi contenuti nel codice su cui va riconosciuta competenza legislativa esclusiva: si tratta di tutti quegli ambiti rispetto ai quali la tutela della concorrenza ha rilievo assolutamente preponderante, come qualificazione e selezione dei concorrenti; criteri di aggiudicazione, subappalto e vigilanza.
Inoltre competenza esclusiva statale viene riconosciuta in tutti quei ambiti compresi nella materia dell’ordinamento civile quali ad es. la materia della stipulazione ed esecuzione dei contratti nonché, ovviamente in materia di contenzioso.
Residua alle Regioni una competenza concorrente in materia di procedure di gara, anche se la potestà regionale va esercitata nel rispetto di una serie di limiti, quali ad es. il divieto di ampliare le ipotesi di ricorso alla trattativa privata.
Viene esclusa infine qualsiasi potestà legislativa regionale per gli appalti sopra soglia per i quali le Regioni non hanno alcuna autonomia di scelta rispetto alle soluzioni di fondo proposte dal legislatore nazione nel codice degli appalti.

L’attuale art.3 del nuovo Codice Unico recepisce tale impostazione con una formulazione che non eviterà di sollevare problemi applicativi e contenzioso costituzionale.
In questo contesto, passando ad esaminare le disposizioni della direttiva cui si è tentato di dare recepimento, è possibile distinguere due tipologie di norme: quelle che si rivolgono direttamente agli Enti appaltati (che dunque diventano i destinatari diretti della relativa disciplina) e quelle che si rivolgono agli stati membri.
Con riferimento alla prima tipologia di disposizioni, si tratta di disposizioni cd. self executing che, in quanto tali, non necessitano del recepimento da parte dello Stato membro per poter essere applicate dalle stazioni appaltanti.
Per le disposizioni che invece, identificano, i loro destinatari negli Stati membri attribuendo ad essi la facoltà di un recepimento, la applicazione delle disposizioni comunitarie è subordinata all’intervento del legislatore nazionale.
Da questa ripartizione discende che, stando alla nostra classificazione, con riferimento alle disposizioni che creano in capo alla stazione appaltante un diritto – dovere di applicazione, sussisto esclusivamente criticità di tipo “ oggettivo”;
Quanto invece alle disposizioni che necessitano di un recepimento, con riferimento ad esse sussistono criticità di tipo sia oggettivo sia soggettivo.
Passando ad esaminare nel dettaglio la prima tipologia di disposizioni, esse riguardano:
1) adeguamento ad accordi internazionali;
2) riservatezza
3) specifiche tecniche;
4) condizioni di esecuzione dell’appalto;
5) procedura negoziata,
6) cause di esclusione;
7) avvalimento;
8) norme di garanzia della qualità e norme di gestione ambientale;
9) criteri di aggiudicazione;
10) pubblicità e termini.
Per logiche esigenze di sintesi, limiteremo la nostra analisi a quelle tra le elencate disposizioni che creano maggiori criticità di tipo “oggettivo”; mi riferisco in particolare, all’istituto dell’avvalimento e della procedura negoziata.
Quanto alla disciplina del cd. “avvalimento” contenuta negli art.li 47, 48 e 52 della Direttiva classica, essa si rivolge direttamente agli operatori economici, quindi è tra quelle disposizioni immediatamente operanti a partire dal 1° febbraio 2006.
La base dell’avvalimento inteso come possibilità di spendere i requisiti di un altro soggetto in occasione della singola gara, trova il suo fondamento nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Senza ricostruire i passaggi fondamentali che hanno portato la giurisprudenza comunitaria ad affermare un principio ormai condiviso anche dalla giurisprudenza nazionale, ciò che è importante rammentare è che gli art. 47 e 48 della Direttiva 18/2004 rispettivamente dedicati alla capacità economica e finanziaria ( 47) e capacità tecniche e professionali (48) prevedono che “un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti.”.
Al di là della sostituzione della necessità di “dimostrare” contenuta nell’art. 47 con quella di dare “la prova” della disponibilità dei mezzi necessari prevista all’art. 48, il legislatore comunitario consente dunque il ricorso all’avvalimento “a prescindere dalla natura giuridica dei legami” e, senza tipizzare i mezzi attraverso i quali è possibile dimostrare la disponibilità dei vantati mezzi.
E’ dunque evidente che un siffatto istituto pone notevoli criticità in considerazione dell’impatto che esso può avere in un ordinamento come quello italiano fortemente caratterizzato da una gestione diretta del rapporto amministrazione / appaltatore e, soprattutto dalla necessità di coordinare il nuovo istituto con quello del subappalto e con le norme sulla qualificazione degli esecutori di lavori pubblici.
In particolare, ci si chiede come sia conciliabile la facoltà di avvalersi delle capacità di altri soggetti, con la previsione del limite di subappaltabilità sino al 30 % della categoria prevalente o del divieto di subappalto delle categorie superspecializzate.
D’altro canto appare altrettanto problematico conciliare il concetto di avvalimento con il principio per cui le categorie superspecializzate devono essere eseguite direttamente da appaltatori in possesso della relativa qualificazione o, in assenza, mediante costituzione di ATI verticali.
Al contempo ci si chiede se non abbia senso riformare di riflesso, anche la disciplina che stabilisce quote di qualificazione ( 40% – 10%) all’interno delle associazioni di impresa di tipo orizzontale (art. 95 Dpr 554/99).
Mentre a livello regionale, le leggi finora predisposte si sono limitate a riprodurre tal quali gli articoli della direttiva, invece, dalla lettura dell’art. 49 del Codice De Lise è immediatamente apprezzabile come lo sforzo del legislatore abbia finito per disciplinare il ricorso all’avvalimento mediante previsioni che tuttavia rischiano di svilire l’istituto.
Innanzitutto, il Codice con una operazione che suscita qualche perplessità in ordine alla costrizione della autonomia delle stazioni appaltanti, ha tipizzato le modalità attraverso le quali è possibile dimostrare il possesso dei requisiti di un altro soggetto:1) dichiarazione del concorrente 2) e dell’impresa ausiliaria sul possesso dei requisiti di ordine generale; 4) dichiarazione di non partecipare in gara in altre forme di avvalimento, ATI – o altra veste; 5) contratto tra concorrente – avvalso ( o dichiarazione sostitutiva infragruppo).
Senza creare un eccessivo allarmismo, tuttavia non si possono dimenticare i rischi legati alla tipizzazione laddove il legislatore comunitario ha lasciato spazio alla libertà delle parti in relazione alle circostanze determinatesi caso per caso (si pensi a quanto è avvenuto con l’istituto della anomalia per come disciplinato in Italia!).
Perplessità ancora maggiori suscita poi la previsione nel nuovo Codice di un regime di responsabilità solidale tra impresa concorrente e impresa cd ”ausiliaria”.
Infatti, non solo la Direttiva non parla di regime di responsabilità solidale, ma una previsione siffatta potrebbe finire per snaturare completamente l’istituto poiché non si vede quale potrebbe essere il vantaggio legato all’avvalimento, se ad es. costituendo un’ATI verticale sarebbe possibile limitare la propria responsabilità alla sola esecuzione delle categorie scorporabili; o, invece, ricorrendo al subappalto, scontare i prezzi del subappaltatore sino al 20%.
E’ dunque evidente che non solo le esposte criticità non sono state risolte ma la stessa legge, finisce per porsi in aperto contrasto con il riparto di competenze di cui all’art.117, in considerazione di quanto disposto dall’art. 4, comma 2, per cui “le Regioni e le Province, nel rispetto dell’art.117 non possono prevedere una disciplina della qualificazione e selezione dei concorrenti, nonché di svolgimento delle procedure di gara, diversa da quella prevista nel presente codice”.
Mentre a livello regionale, le leggi finora predisposte si sono limitate a riprodurre tal quali gli articoli della direttiva, invece, ad una prima lettura della bozza di Codice è immediatamente apprezzabile come lo sforzo del legislatore abbia finito per disciplinare il ricorso all’avvalimento mediante previsioni che rischiano – se così definitivamente formulate – di svilire l’istituto.
Innanzitutto, il Codice con una operazione che suscita qualche perplessità in ordine alla costrizione della autonomia delle stazioni appaltanti, ha tipizzato le modalità attraverso le quali è possibile dimostrare il possesso dei requisiti di un altro soggetto:1) dichiarazione del concorrente 2) e dell’impresa ausiliaria sul possesso dei requisiti di ordine generale; 4) dichiarazione di non partecipare in gara in altre forme di avvalimento, ATI– o altra veste; 5) contratto tra concorrente – avvalso ( o dichiarazione sostitutiva infragruppo).
Senza creare un eccessivo allarmismo, tuttavia non si possono dimenticare i rischi legati alla tipizzazione laddove il legislatore comunitario ha lasciato spazio alla libertà delle parti in relazione alle circostanze determinatesi caso per caso (si pensi a quanto è avvenuto con l’istituto della anomalia per come disciplinato in Italia e alla relativa sentenza della Corte di Giustizia del novembre 1999!).
Perplessità ancora maggiori suscita poi la previsione nel Codice del regime di responsabilità solidale tra impresa concorrente e impresa cd ”ausiliaria”.
Infatti, non solo la Direttiva non parla di regime di responsabilità solidale, ma una previsione siffatta potrebbe finire per snaturare completamente l’istituto poiché non si vede quale potrebbe essere il vantaggio legato all’avvalimento, se ad es. costituendo un’ATI verticale sarebbe possibile limitare la propria responsabilità alla sola esecuzione delle categorie scorporabili; o, invece, ricorrendo al subappalto, scontare i prezzi del subappaltatore sino al 20%.
E’ dunque evidente che non solo le esposte criticità non sono state risolte ma la stessa legge, finisce per porsi in aperto contrasto con il riparto di competenze di cui all’art.117, in considerazione di quanto disposto dall’art. 4, comma 2, per cui “le Regioni e le Province, nel rispetto dell’art. 117 non possono prevedere una disciplina della qualificazione e selezione dei concorrenti, nonché di svolgimento delle procedure di gara, diversa da quella prevista nel presente codice”.
Per il resto, il Codice ripercorre l’impostazione della Direttiva distinguendo l’avvalimento vero e proprio da quello infragruppo, cui solo si può ricorrere per l’ottenimento della qualificazione o l’iscrizione in elenchi o Albi, come in Italia per l’ottenimento della SOA.
Altra disciplina immediatamente diretta alle stazioni appaltanti che, pertanto, non necessita di un recepimento è quella contenuta negli art. 30 e 31 della Direttiva 18/2004 rispettivamente dedicati alla procedura negoziata con o senza pubblicazione preventiva di un bando di gara.
Si tratta a ben vedere di una disciplina che estende anche agli appalti di lavori pubblici una serie di fattispecie legittimanti il ricorso alla procedura negoziata tradizionalmente ipotizzate per i soli appalti di servizi e forniture.
Qui la criticità oggettiva non attiene allo scarso dettato della disposizione comunitaria, ma alla difficoltà di conciliare la predetta disciplina con quella ben più restrittiva contenuta nell’art. 24 della legge Merloni.
Quanto al Codice, essa recepisce l’impostazione assai più “permissiva” della Direttiva 18/2004, rispetto alla quale, inserisce due tipi di limitazioni:
– da un lato, infatti, limita il ricorso alla procedura negoziata con o senza bando di gara nel caso di gara deserta, offerte inaccettabili etc, entro il limite di un milione di euro;
– dall’altro, il legislatore coglie l’occasione per inserire nella disposizione dedicata alla procedura negoziata, il divieto di rinnovo tacito dei contratti.
Niente di male in questo se non fosse che, anche in questo caso, la premessa di cui all’art. 4, comma 2 della Legge finisce per condizionare fortemente le Regioni: divieto di disciplinare in maniera difforme significa introdurre il limite di un milione di Euro?
Evitando di passare in rassegna tutti gli istituti suscettibili di immediata applicazione una breve notazione riguarda la criticità legata alla disciplina relativa alla pubblicazione degli avvisi e dei bandi di gara, con riferimento alla quale, il recepimento nazionale di cui al codice de Lise appare in contrasto con la normativa di cui al Dm 20/2001 che, per gli appalti sottosoglia, consente di sostituire le altre forme di pubblicazione – fatta eccezione per la pubblicazione sui quotidiani – con quella sui siti internet di cui al predetto decreto.
Passando all’esame di quegli istituti che, invece, necessitano di un recepimento le prime perplessità sorgono con riferimento alle centrali di committenza intese come “amministrazioni aggiudicatici che acquistano beni e servizi o aggiudicano appalti di lavori e stipulano accordi quadro di servizi lavori e forniture per altre amministrazioni” ( art. 3 e 11 della Direttiva).
La Direttiva recepisce l’esperienza maturata in molti paesi europei nei quali la centralizzazione degli acquisti ha funzionato da “calmiere dei mercati” e indotto a risparmi per le casse dello stato.
In Italia si è assistito alla esperienza della Consip Spa, che tuttavia lascia ancora aperte alcune perplessità sui benefici effetti che le procedure centralizzate possono avere sul piano del risparmio pubblico, mentre sono tangibili gli effetti negativi che un sistema centralizzato rischia di produrre sul piano della concorrenza a tutto discapito dei piccoli operatori.
Con specifico riferimento all’ordinamento italiano, la più evidente criticità nella applicazione della normativa comunitaria risiede nell’espresso divieto di delega di funzioni di stazione appaltante ( art. 19, comma 3 della Legge 109/94) contenuto nella Legge Merloni; di qui che la Consip è stata istituita solo per la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi.
Come devono comportarsi le Regioni? Il limite contenuto nella Legge Merloni costituisce una norma di principio in quanto tale inderogabile da una disciplina regionale?
Questa è la maggiore criticità che l’attuale bozza di Codice pare aver superato, prevedendo una applicazione trasversale dell’istituto.
Anche con riferimento alle centrali di committenza, il Codice Unico pone un limite operativo alle Regioni laddove vieta una disciplina difforme rispetto allo svolgimento delle procedure di gara.
Non sarebbe allora possibile per le Regioni introdurre dei correttivi al sistema ideato a livello nazionale, magari prevedendo dei meccanismi di selezione dei contraenti differenziati per fasce di importo in modo da consentire la partecipazione anche ai piccoli operatori?
O ad es. ideare dei meccanismi in virtù dei quali si eviti di determinare l’effetto comune per il quale in luogo di un risparmio, la possibilità di acquistare a prezzi più contenuti determina una duplicazione degli acquisti? (se i computer da acquistare costano 50 invece che 100, le amministrazioni ne acquistano 100 in luogo dei 50 preventivati!).
Tra gli istituti sicuramente più innovativi nel quadro delle nuove Direttive vi è senz’altro la nuova procedura del dialogo competitivo (art. 29).
L’istituto, come verrà spiegato meglio in seguito, è stato ideato per recepire la necessità manifestata dalle stazioni appaltanti di essere dotate di uno strumento più flessibile entro cui convogliare le proprie necessità.
Di qui la ideazione di una procedura di gara anticipata da una fase di “dialogo procedimentalizzato”, volto a meglio definire le necessità ovvero gli strumenti con cui l’amministrazione può soddisfare le sue necessità.
Il presupposto per ricorrere al dialogo competitivo è la sussistenza di un appalto particolarmente complesso.
La Direttiva detta in linea di massima quali sono i presupposti per cui un appalto possa considerarsi particolarmente complesso:
1) quando l’amministrazione non è oggettivamente in grado di definire le sue necessità o i suoi obiettivi;
2) quando non è in grado di specificare l’impostazione giuridica/ finanziaria di un progetto.
Quindi la prima criticità risiede nella esatta identificazione di quando un appalto possa in concreto definirsi particolarmente complesso.
Altro aspetto problematico della procedura descritta nell’art. 29 della Direttiva riguarda la necessità di definire sin dal bando di gara (ossia quando non è stato ancora condotto il Dialogo e dunque la stazione appaltante non ha effettuato una scelta tra le varie proposte), i criteri di valutazione delle offerte e, soprattutto, i requisiti di partecipazione dei concorrenti.
In buona sostanza viene richiesto alla stazione appaltante di immaginare quali requisiti debba possedere il proprio contraente in una fase antecedente alla identificazione di quelli che poi saranno i suoi reali contraenti.
Si tratta di criticità che il Codice ha tentato di superare tentando di definire quando un appalto è particolarmente complesso:difficoltà di stabilire i propri bisogni o perché non si dispone di studi per identificare i propri bisogni e mezzi strumentali.
Sotto il profilo della identificazione dei requisiti dei concorrenti il codice unico prevede che essi possano essere determinati nella lettera di invito alla presentazione delle offerte.
Rimane aperta una sola criticità legata alla selezione per fasi per ridurre il numero delle soluzioni proposte: né la Direttiva né il Codice dicono nulla a proposito, lasciando alle stazioni appaltanti largo margine per inserire criteri discrezionali con conseguente rischio di contenzioso.
Le assimilazioni tra le esigenze che questa procedura è finalizzata a soddisfare e quelle tipiche di una procedura di partenariato pubblico privato, hanno spinto in molti a pensare ad un connubio tra questa procedura ed ad es. la procedura per la ricerca del promotore.
Il Codice unico prevede la possibilità di ricorrere al dialogo competitivo quando la Pa non abbia individuato alcuna proposta di pubblico interesse .
Rimane il dubbio di come si atteggia rispetto a tale previsione, la soluzione ad es. prospettata dalla Regione Piemonte di utilizzare la procedura del dialogo competitivo in luogo di quella attualmente contenuta negli art.li 37 bis e ss della Legge 109/94 per la selezione del promotore.
Per finire, l’ultima notazione riguarda l’istituto dell’Accordo Quadro ( art. 32).
Istituto già sperimentato per gli appalti aggiudicati nei settori esclusi, l’istituto dell’Accordo quadro riguarda la possibilità di economizzare la procedura facendo un’unica gara per l’aggiudicazione di appalti seriali e ripetitivi.
Criticità: nel caso di accordo quadro di uno o più operatori economici con cui stipulare l’accordo quadro non è chiaro quali siano i requisiti da inserire ( riferiti a tutti gli appalti o ad un solo appalto?.
Se alla fine chi è parte dell’Accordo quadro viene invitato a fare dei rilanci, di fatto qual è la posizione che gli viene riconosciuta?
Sembra che si tratti di una semplice prequalifica.
Il Codice unico introduce un sistema di rotazione nel caso di accordo quadro con più operatori, con la conseguenza che ogni concorrente parte dell’accordo non può aggiudicarsi più di un appalto.
Di questa indicazione non si trova traccia nella Direttiva, dove si parla semplicemente di possibilità di rilancio con conseguente possibilità di aggiudicarsi uno o più contratti nel caso si faccia la migliore offerta.

di Dover Scalera