Roma, 25 novembre 2004
In occasione dell’uscita del volume  curato dal Prof. Marco Cammelli dal titolo “ Il Codice dei beni  culturali e del paesaggio”, lo scorso 25 novembre è stata organizzata  una giornata di studio avente ad oggetto il processo di riorganizzazione  che ha recentemente interessato il Ministero per i beni e le attività  culturali. 
Il Prof. Cammelli ha aperto i lavori, spiegando lo  stretto intreccio che sussiste tra l’avvenuto riordino del Ministero e  l’intervento del Codice: un tema molto complesso, che presenta non pochi  nodi da sciogliere. Occorre, allora, tenere presente tre questioni di  fondo per analizzare tale riforma: 
– i rapporti tra politica e  amministrazione; 
– i rapporti centro – periferia; 
– i rapporti  con i privati. 
È necessario, inoltre, pensare al nuovo Ministero  come alla parte cruciale di un sistema scomposto in diversi elementi ma  che deve comunque avere un’unica direttrice. 
Il Prof. Merusi,  parlando delle funzioni del Ministero, individua nello iato tra norme  organizzative e norme generali, l’elemento che maggiormente colpisce sia  nella normativa passata che in quella più recente. Se, ad esempio, si  considerano i decreti legislativi n. 112/98 e n. 368/98, si rileva che  il primo è stato teso a coinvolgere Stato, Regioni ed Enti Locali nella  valorizzazione e gestione dei beni culturali, il secondo ad individuare  essenzialmente le funzioni spettanti allo Stato. Nei provvedimenti più  recenti, poi, detto iato si ripete e risulta ancora più visibile. 
Merusi  riconosce che con la riorganizzazione ministeriale è stata ridisegnata  la funzione di programmazione che costituisce un vero e proprio “nervo”  per il funzionamento di tale apparato. Ma, proseguendo, si chiede se non  sarebbe servito piuttosto un riordino che avesse integrato i rapporti  interno/esterno al fine di superare quello iato tra politica e  amministrazione che caratterizza tutte le istituzioni di governo. 
Il  Prof. D’Auria ha effettuato un intervento che ha messo in evidenza  numerosa criticità e contraddizioni presenti nella nuova formula  ministeriale. Innanzitutto evidenzia la profonda instabilità che  caratterizza il campo dell’amministrazione dei beni culturali: a  testimonianza di ciò, basti pensare che, in tale settore, si arriva ad  emanare anche 10 provvedimenti l’anno. Successivamente passa ad operare  un raffronto tra la prima riorganizzazione ministeriale avvenuta nel  1975, non senza polemiche, e quella attuale. Nel primo caso erano state  previste 4 Direzioni Generali ( di cui 3 denominate “uffici”), mentre  oggi abbiamo un’articolazione a livello centrale che comprende 4  Dipartimenti e 10 Direzioni Generali: 
1) Dipartimento per i beni  culturali e paesaggistici; 
2) Dipartimento per i beni archivistici e  librari; 
3) Dipartimento per la ricerca, l’innovazione e  l’organizzazione; 
4) Dipartimento per lo spettacolo e lo sport. 
Guardando  all’articolazione dei Dipartimenti, è legittimo chiedersi perché se nel  Codice la disciplina dei beni culturali è distinta da quella del  paesaggio vi sia un unico Dipartimento a ricomprenderle. 
Soffermandosi,  poi, sul Dipartimento per la ricerca, l’innovazione e l’organizzazione,  D’Auria fa notare che tale struttura è nient’altro che la vecchia  Direzione affari generali e del personale: le sue competenze sono  ritagliate da quelli che dovrebbero essere compiti degli altri  Dipartimenti. Sostanzialmente esso individua i criteri generali di  sicurezza in materia di beni culturali. 
D’Auria rileva, inoltre, che  il Ministero è cresciuto quanto al numero di dipendenti ma non quanto a  personale tecnico: si consideri infatti che, per grandezza, risulta  essere il terzo Ministero, ma, nonostante ciò, gestisce solo lo 0,3% del  bilancio nazionale. Presenta, dunque, una struttura imperiale che,  però, soffre di carenza di personale tecnico. 
Confrontando, poi, le  tendenze presenti nella ratio che ha ispirato la riorganizzazione del  Ministero con quella che ha ispirato il Codice, è rilevante notare che  mentre nel d.lgs. 42/2004 si registra un’apertura verso le Regioni e gli  Enti Locali, l’atteggiamento ministeriale è invece di chiusura in  questo senso: nel regolamento, infatti, non si accenna ad intese o  accordi con le realtà locali, ma, si è concentrati piuttosto a trovare  strumenti volti alla risoluzione di problemi interni che non a dialogare  con l’esterno. 
Per concludere vengono portati alla luce tre nodi  fondamentali della riforma ministeriale: 
– le funzioni dei nuovi  gabinetti, che ora coadiuvano il ministro nell’esercizio delle funzioni  di indirizzo e controllo; 
– i controlli interni, il cui terreno  d’operazione viene meno in mancanza di una programmazione soddisfacente;  
– la dirigenza, relativamente alla quale si fa notare che il  Governo ha il potere di nominare dall’esterno dell’amministrazione il  40% dei dirigenti. 
Anche il Prof. Sciullo vuole focalizzare il suo  intervento, avente ad oggetto l’organizzazione periferica del Ministero,  su tre punti essenziali: 
– l’ esistenza o meno di continuità tra  Direzioni e Soprintendenze regionali; 
– il mutato ruolo delle  Soprintendenze di settore; 
– il rapporto tra le strutture centrali e  periferiche. 
Il decreto ministeriale 24 settembre 2004 restringe  l’articolazione delle Direzioni regionali, in quanto solo alcune  Soprintendenze costituiscono un’articolazione delle suddette Direzioni.  Inoltre, nello stesso decreto ministeriale non vengono specificati i  compiti delle soprintendenze di settore: le loro funzioni sono  indirettamente individuate tramite la definizione dei compiti delle  Direzioni generali e regionali. Sciullo arriva ad affermare che fra  Soprintendenze e Direzioni regionali c’è sia un elemento di continuità  che di discontinuità, dal momento che le prime svolgevano una funzione  di coordinamento in modo “soft”, mentre le seconde coordinano e dirigono  in senso aperto. Il lavoro dei Direttori regionali è sicuramente  superiore per quantità rispetto a quello dei Soprintendenti regionali,  ma, bisogna ricordare che i loro compiti sono mutuati dal centro e,  dunque, non derivano per sottrazione da quelli svolti dai Soprintendenti  stessi. 
Riguardo alla seconda questione inizialmente prospettata,  occorre riconoscere che, sebbene sia stato a lungo detto che le  soprintendenze di settore hanno perso i loro originari compiti tecnico –  scientifici, in realtà non è stato così, anche se, alcune delle loro  competenze amministrativo – gestionali spettano ora ai Direttori  regionali. La loro figura, cioè, è stata ridimensionata nel ruolo ma è  rimasta immutata nello stile. 
Infine ci si chiede se lo schema del  nuovo ministero possa essere considerato uno schema di decentramento. La  risposta è affermativa, visto che, come ricordato in precedenza, le  funzioni delle Direzioni regionali provengono essenzialmente da una  sottrazione dei compiti dal centro. 
L’intervento della Prof.ssa  Barbati si è incentrato sui rapporti del Ministero con le autonomie. In  merito a tale questione Barbati rileva che, nell’organizzazione  ministeriale odierna, rispetto al passato è cambiato poco o nulla:  continuano a sussistere incertezze sui pochi momenti di raccordo  previsti, viene meno la presenza dei rappresentanti delle autonomie  all’interno dei Comitati tecnico – scientifici, delle Direzioni  regionali si dice che provvedono a curare i rapporti con le Regioni e  gli Enti Locali ma non si fa alcun riferimento alle modalità di cura di  tali rapporti. 
È vero che il Codice all’articolo 112 richiama lo  strumento della Conferenza unificata al fine di stabilire accordi su  base regionale volti alla valorizzazione dei beni culturali, ma, ricorda  Barbati, il nuovo Titolo V obbliga ad un maggior dialogo con le  Regioni, al di là della loro rappresentanza all’interno di organi  eminentemente statali, quale è la Conferenza. 
Ultimo intervento,  quello del Prof. Foa, avente ad oggetto i raccordi fra Ministero e  privati. Il filo conduttore del suo discorso si basa sul fatto che la  competenza ministeriale a coinvolgere il privato nella gestione dei  servizi culturali si muove su due piani mobili: 
– un piano  istituzionale; 
– un piano sostanziale. 
Il Prof. Foa ha  richiamato, poi, la sentenza della Corte Costituzionale n. 272/04 che ha  dichiarato l’illegittimità dell’articolo 113 – bis del T.U.E.L. 267/00,  nonché la recente Ordinanza del TAR Marche n. 136 del 15 ottobre 2004,  emanata a seguito del ricorso presentato dall’Associazione Italia Nostra  contro il Ministero per i Beni e le Attività culturali per la pretesa  violazione dei principi fondamentali di buon andamento, economicità ed  efficienza dell’attività della Pubblica Amministrazione e per l’eccesso  di delega attuato con violazione dei principi e criteri indicati negli  artt. 1 e 10 della legge delega n. 137/2002. In merito il Prof. Foa ha  rilevato che i contenuti della delega sopraccitata risultano essere  piuttosto confusi. 
Effettuando, poi, una valutazione sul Codice  relativamente alla gestione dei servizi culturali, si denota che lo  stesso è ispirato al principio della sussidiarietà orizzontale e tende a  richiamare la nozione di servizio pubblico. 
Importante, infine,  ricordare che, nonostante l’intervenuta riforma del Ministero, per quel  che riguarda i privati, rimane immutata la valenza dell’articolo 10 del  d. lgs. 368/98.