La Corte di Giustizia della Comunità europea sulla nozione di “rifiuto”Corte Giustizia CE, 11 novembre 2004, causa C-457/02

11.11.2004

Con la sentenza dell’11.11.2004 la Corte di Giustizia europea affronta il tema della nozione e della qualificazione di rifiuto.
La vicenda sottoposta all’attenzione dei giudici di Lussemburgo ha consentito a questi ultimi di censurare il contrasto tra la disciplina interna e quella comunitaria.
Secondo la Corte, infatti, dalla nozione di rifiuto non possono essere esclusi i residui di produzione o di consumo sulla base del solo fatto che questi siano poi riutilizzati in un luogo di produzione o di consumo.
Il tutto ha avuto origine da un procedimento penale nei confronti del legale rappresentante di una società che trasportava in modo non autorizzato dei rottami di tipo ferroso. Tale condotta, alla luce del d.l. n. 138/02, non permetterebbe la configurazione della fattispecie come reato, stante la previsione secondo cui i residui ferrosi destinati al riutilizzo non possono annoverarsi nella categoria dei rifiuti.
La questione, dunque, è stata posta all’attenzione della Corte di Giustizia europea, la quale, analizzando la legge n. 178/02 che ha convertito il d.l. n. 138/02, ha rilevato come il legislatore italiano abbia effettuato un’interpretazione autentica della nozione di rifiuto in violazione della disciplina comunitaria.
Secondo la Corte nell’alveo della nozione di rifiuto rientrerebbe “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nell’allegato L e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Il che comporta, alla luce della direttiva 75/442, così come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/530, l’impossibilità di escludere dalla nozione giuridica di rifiuto l’insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo.
Tutto ciò avrebbe come inevitabile conseguenza l’incompatibilità della nozione di rifiuto, così come prevista dall’art. 14 della legge n. 178/02, con quella indicata in sede comunitaria. Il che potrebbe determinare, in considerazione della prevalenza del diritto comunitario sulla normativa interna, l’obbligo del giudice italiano di disapplicare la disposizione in contrasto con la normativa europea e, con riferimento al caso di specie, l’applicazione di un trattamento meno favorevole all’imputato.
In definitiva, la decisione in esame pone il problema della disapplicabilità o meno dell’art. 14 della legge n. 178/02, in quanto incompatibile con le disposizioni stabilite in sede comunitaria.
Tuttavia, la sentenza della Corte di Giustizia europea non ha i connotati della cogenza e della decisività, di tal che deve escludersi un effetto vincolante della stessa. Il che è ampiamente confermato dalla prevalente giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giust. Eu. 24.11.93, Causa 267-268/9).
Orbene, soltanto le direttive self executing trovano immediata applicazione nel nostro ordinamento interno. Tuttavia, se ciò è vero, allora, la direttiva 91/156 che contiene la definizione di rifiuto, non essendo self executing, non pare debba avere efficacia diretta e vincolante nel nostro ordinamento.
In conclusione, la nozione di rifiuto che pone la direttiva 91/156 e che è stata richiamata dalla recente decisione dell’11.11.2004 non pare essere immediatamente efficace e vincolante né per i giudici italiani, né tantomeno per la pubblica amministrazione.
Pertanto, sarà compito del Parlamento italiano analizzare il problema e procedere alla modifica dell’art. 14 della legge 178/02, soltanto così si potrà avere una nozione di rifiuto più aderente al dettato comunitario anche in considerazione del fatto che si tratta di materia che assume rilevanza penale.

a cura di Cesare Carini