Il nuovo codice dei beni culturali tra rinnovamento e conservazione – Resoconto convegno

11.11.2004

Roma, 21 ottobre 2004

I lavori si aprono con una breve introduzione del Professor Pasquale Lucio Scandizzo, che, ricordando il tema del convegno, afferma che più correttamente si potrebbe parlare di un Codice dei beni culturali tra innovazioni e contraddizioni, anticipando, in questo modo, quello che sarà il filo conduttore dell’incontro.
A seguire, l’intervento dell’Assessore alle politiche culturali della Provincia di Roma, Vincenzo Vita, il quale elenca quali sono ad oggi gli argomenti maggiormente dibattuti alla luce dell’introduzione del nuovo Codice Urbani. In particolare l’Assessore ha evidenziato:
– la necessità dell’adozione di tale codificazione, al fine, soprattutto, di dare organicità ed unicità all’insieme di leggi e regolamenti in materia di beni culturali aventi una stratificazione generazionale;
– la necessità di individuare la natura formale dei beni culturali così come trattati dal Codice;
– il profilo dell’ultima legge finanziaria, definendola una manovra “aspra” per gli enti locali, a causa dei tagli che la stessa ha apportato all’attività di questi ultimi;
– la necessità di approfondire il tema della cura del paesaggio, che costituisce un punto essenziale anche all’interno della stessa Costituzione;
– la linea d’ombra che tutt’oggi sussiste circa le competenze legislative concorrenti, Stato – Regioni – Enti Locali, in materia di beni culturali, a seguito della riforma costituzionale del Titolo V. In particolare Vita sottolinea la necessità di specificare i rispettivi compiti, a fronte del rischio di una diffusa inattività causata dalle incertezze che ancora permangono.
Il Professor Scandizzo prosegue individuando tre componenti fondamentali del Codice:
1) il tentativo di dare delle definizioni definitive per eliminare le ambiguità esistenti finora. Più specificatamente dette definizioni riguardano il chiarimento del concetto di “beni culturali e ambientali”, nonché quelli di “valorizzazione e conservazione”, un problema, quest’ultimo, di definizione ontologico.
2) Il rapporto tra pubblico e privato.
3) La componente di razionalizzazione, dato che il Codice è una razionalizzazione della normativa sparsa già esistente.
Soffermandosi sulle tre componenti già richiamate, Scandizzo riconosce che la definizione dei concetti di valorizzazione e conservazione è un problema fondamentale per i beni pubblici in generale, e, in particolare, per i beni degni di tutela. La tutela può essere considerata come una difesa del valore esistente, mentre la valorizzazione un accrescimento del predetto valore. Per molti economisti, in ogni caso, si tratta di una differenza artificiosa. Uno dei meriti del Codice è stato sicuramente quello di aver unificato i due concetti, o, quantomeno, di aver evitato una dicotomia in tal senso.
Parlando della natura pubblica dei beni culturali, Scandizzo afferma che ci si trova dinanzi ad una materia molto disputata in dottrina: il quesito che occorre sciogliere è quello di vedere in che senso i beni culturali sono beni pubblici. Il bene pubblico possiede di due proprietà:
– la condivisibilità
– la non escludibilità.
Si tratta di beni che non possono essere venduti ma solo fruiti, e spesso si configurano come beni fiduciari: il consumatore, cioè, deve avere fiducia nel produttore per “acquistare” il bene. I beni culturali sono, dunque, beni pubblici e fiduciari.
Inoltre vengono individuati due tipologie “estreme” di beni pubblici:
1) essenziali, nel caso in cui deve essere assicurato un servizio centralizzato per ragioni di giustizia sociale;
2) locali, quando l’erogazione di un servizio è riservata alle comunità locali.
Fatta questa premessa, si può allora giungere alla conclusione che i beni culturali sono beni pubblici locali: in rapporto ad essi, infatti, si rileva un importante coinvolgimento degli enti locali.
Prende la parola la Dott.ssa Madel Crasta, presentando il Consorzio Baicr, di cui è Segretario Generale, come un soggetto privato: in realtà la definizione di “privato” è una “definizione – ombrello”, sotto cui agiscono soggetti con finalità e modalità di lavoro diverse. Il punto di forza del Baicr è rappresentato dalla comunicazione fra saperi e beni volta alla valorizzazione, che, a sua volta, consente la tutela: i due principi, infatti, non sono divisi, anche perché, nella realtà, tale differenza sarebbe molto difficile da mettere in atto.
Madel Crasta ricorda che subito dopo l’introduzione del Codice Urbani è intervenuta la riforma del Ministero per i beni e le attività culturali: viene, dunque, spontaneo chiedersi se l’effettiva applicazione del Codice possa risultare difficoltosa proprio a causa della suddetta riforma. Il Baicr, tra le sue attività, annovera anche il monitoraggio di tale contesto.
Il coordinatore degli interventi, Prof. Salvatore Bellomia, spiega il contesto del Codice, entrato in vigore nel 2004, a pochi anni di distanza dal Testo Unico del 1999: la principale distinzione tra i due provvedimenti normativi risiede nel loro impianto. Il Codice risulta avere un impianto innovativo, mentre il T.U. del 1999 un impianto di stile compilativo, realizzato al fine di armonizzare la legislazione preesistente con il sistema vigente.
Tra i due interventi si colloca la riforma del Titolo V della Costituzione.
Tra le novità apportate dal Codice si ricorda l’introduzione della nozione di “patrimonio culturale” (art. 2), che non trova un riscontro costituzionale (cfr. artt. 9 e 117 Cost.).
Il Prof. Bellomia richiama taluni punti su cui è necessaria un’approfondita riflessione:
– il procedimento di verifica dell’interesse culturale ( art. 27 d.l. 269/03 convertito in l. 326/03, nonché art. 12 del Codice);
– la definizione dei concetti di “tutela” e “valorizzazione” ed il problema di una loro potenziale sovrapposizione;
– la questione della competenza statale in materia di tutela dei beni paesaggistici, posto che le Regioni hanno competenza legislativa esclusiva in materia di “governo del territorio”;
– la legge delega e la recente sanatoria ambientale;
– la riorganizzazione ministeriale, accusata di presentare caratteristiche centraliste;
– i tagli apportati alla finanziaria nel settore dei beni culturali.
L’intervento del Dott. Carlo Fuortes, Amministratore Delegato di “Musica per Roma”, si apre con la presentazione dei tre argomenti – opposizioni che si andranno a trattare, al fine di verificare come si comporti in merito il Codice:
1) tutela / valorizzazione;
2) centralismo / devoluzione;
3) rapporto pubblico / privato.
Fuortes effettua subito una considerazione circa il dilemma, da lui stesso giudicato falso, tra i concetti di “tutela” e “valorizzazione”: i due principi, infatti, devono marciare di pari passo.
Prosegue affermando che la cultura, nel corso degli anni, è stata protagonista di un percorso in crescendo: se, negli anni ’70 costituiva un bene per pochi, tra gli anni ’80 e ’90 si è registrato un aumento dell’interesse in tal senso. Ed è alla metà degli anni ’90 che occorre far risalire la nascita della dicotomia “tutela – valorizzazione”, un problema, questo, prettamente italiano e che negli ultimi 12 anni ha avuto l’effetto di produrre molti limiti; lo Stato ha esternalizzato al privato il processo di valorizzazione e ciò ha generato una scollatura con la tutela, dando inizio così ad una vera e propria guerra ideologica. Fuortes richiama, invece, l’esempio di altri Paesi europei, quale la Francia, il cui sistema affida l’attività di valorizzazione ad un ente pubblico.
Si rileva che il Codice ha avuto il merito di avvicinare i due momenti, che, sottolinea, non devono essere in alcun modo scissi.
Il problema, piuttosto, è legato alla contrapposizione “centralismo – devoluzione”: le funzioni di tutela sono attribuite dal Codice allo Stato, ma, contemporaneamente è lo stesso Codice che stabilisce la possibilità di conferire dette funzioni a Regioni ed Enti Locali ( cfr. artt. 4 e 5 del Codice). Questo è sicuramente un elemento positivo ma allo stesso tempo rischioso: favorisce sì uno sviluppo del sistema di tutela, ma si rischia una devoluzione inopportuna del predetto sistema, che, invece, dovrebbe avere delle regole nazionali uguali. Tale devoluzione si presenta, comunque, come un elemento di innovazione rispetto al passato, a dimostrazione del fatto che il Codice ha aperto delle strade che finora erano rimaste chiuse.
Circa la terza questione, Fuortes ricorda la legge Ronchey del 1993, che ha introdotto l’ingresso dei privati nel settore dei beni culturali, ma limitatamente alla gestione dei servizi aggiuntivi. Con tale previsione i privati pensavano di arricchirsi, ma occorre ricordare che il sistema dei beni culturali è un settore assolutamente no – profit. Nonostante ciò, con l’ingresso del privato si è registrato un notevole miglioramento del sistema museale, poiché tale soggetto, sottoposto ai dovuti controlli, ha agevolato e accelerato il processo di valorizzazione. In linea con quanto stabilito dalla legge Ronchey, il privato ha svolto esclusivamente attività in relazione ai servizi aggiuntivi e tecnici, non entrando mai nella gestione effettiva del bene culturale. Ed è proprio alla suddetta legge che il Codice fa riferimento nel disciplinare i servizi aggiuntivi ( art. 117 Codice). Tuttavia, ora il Codice ha previsto la possibilità di gestione delle attività di valorizzazione dei beni culturali da parte del privato: tale soggetto può ottenere una gestione in concessione, che però, a parere del Dott. Fuortes, non verrà mai applicata effettivamente.
Circa, poi, la possibilità, prevista dall’art. 4 del Codice di delegare l’esercizio delle funzioni di tutela da parte dello Stato, Fuortes sostiene che non sarà lo stesso Codice a generare direttamente tale conferimento, ma piuttosto leggi regionali o decreti ministeriali.
A seguire l’intervento del Dott. Eugenio La Rocca, Sovrintendente ai beni culturali del Comune di Roma, il quale riprendendo la questione già ampiamente affrontata, e cioè quella del rapporto tra tutela e valorizzazione, afferma che se nelle leggi precedenti la dizione utilizzata era “tutela” e “conservazione”, oggi si parla di “fruizione” e “valorizzazione”.
La Rocca sottolinea anche la difficoltà nel distinguere i beni culturali locali da quelli nazionali: in realtà tale distinzione non sussiste. Porta così l’esempio dei Musei Capitolini: anche se “romani”, sono comunque un bene culturale appartenente all’intera collettività nazionale.
Soffermandosi sulla questione del conferimento delle attività di tutela alle Regioni e agli Enti Locali da parte dello Stato, nonché della riconosciuta potestà legislativa concorrente in materia di valorizzazione dei beni culturali e ambientali e di promozione e organizzazione delle attività culturali, il Sovrintendente avanza l’ipotesi secondo cui probabilmente le Regioni non erano pronte a recepire dei compiti così gravosi e comunque bisogna ricordare che il tutto è avvenuto alla luce di una persistente diffidenza tra Stato, Regioni ed Enti Locali.
Tra le questioni toccate anche l’estrema importanza degli standard museali ( art. 150, comma 6, d.lgs. 112/98), che rappresentano un’efficace barriera contro un uso scorretto dei beni culturali.
Uno dei maggiori meriti del Codice, secondo La Rocca, è stato quello di correggere la tendenza a mettere in mano esclusivamente allo Stato l’attività di tutela: ciò ha prodotto anche un’evoluzione in senso più ampio del significato di tutela, che non deve considerarsi come diretta al singolo bene, ma al contesto in cui il bene stesso è inserito. Altro elemento positivo è il miglioramento dei rapporti Stato – Regioni – Enti Locali che proprio con il Codice si tenta di incoraggiare.
La Rocca conclude esponendo un personale parere: si ritiene d’accordo con l’intervento dei soggetti privati nel sistema dei beni culturali ma occorre un costante controllo su di essi, al fine di verificare se gli stessi utilizzano i musei per quello che effettivamente sono.


Chiara Umiliaco