Dalla legge al regolamento. Lo sviluppo della potestà normativa del governo nella disciplina delle pubbliche amministrazioni – Resoconto convegno

03.03.2004

Giorgio BERTI, Andrea MANZELLA, Ugo DE SIERVO, Fabio Severo SEVERI, Luisa TORCHIA

Discussione del libro di Nicola Lupo – Resoconto integrale

Dalla legge al regolamento.
Lo sviluppo della potestà normativa del governo nella disciplina delle pubbliche amministrazioni (Il Mulino, Bologna, 2003)

Luiss Guido Carli – Sala delle colonne

Roma, 26 giugno 2003

Giorgio BERTI. Il libro di Nicola Lupo si direbbe, come credo tutti i presenti in qualche modo abbiano potuto vedere dal suo sottotitolo, un tentativo di razionalizzare la potestà normativa del Governo.
Devo dire che il libro risulta bene articolato, ove si tenga presente che viviamo in tempi nei quali la sistematica è alquanto carente e caduca: non vi sono infatti punti fermi sui quali confidare nelle nostre argomentazioni. Tutto ciò che si può allora fare è  tentare una razionalizzazione di fatti, eventi, pronunce e dichiarazioni che in qualche modo toccano il quadro delle tipiche figure  che noi abbiamo conosciuto come proprie del diritto pubblico e, in particolare, di quelle presenti nel “campo” delle fonti del diritto. Campo, come si dirà, molto “arato” e percorso, assai delicato nei suoi ingranaggi, e che in un certo senso “doppia” l’andamento istituzionale dello Stato.
L’ordine delle fonti del diritto segue infatti il modificarsi dell’andamento istituzionale e degli apparati pubblici; il disordine delle fonti altro allora non è che la fotografia del disordine istituzionale.
Questo rapporto fra la legge ed il regolamento è stato uno dei temi, come rileva Lupo nella sua introduzione richiamando Cammeo, che ha attraversato gli studi di diritto pubblico sin dall’inizio, dal momento che legge e regolamento altro non sono che l’incontro tra una “forza”, quella parlamentare, espressione di una potestà rappresentativa, e l’altra istituzione fondamentale, costituita dall’amministrazione; legge e regolamento “doppiano” quindi questa duplicità di grandi figure dello Stato.
Nella Costituzione del 1948, cosa che mi ha sempre impressionato, non si parla  quasi del regolamento; i costituenti del 1948 avevano espresso la loro diffidenza verso l’amministrazione e verso quella forma di espressione dell’amministrazione che è il regolamento.  Questo perché l’amministrazione evocava uno Stato amministrativo fortemente autoritario, inteso alla vecchia maniera.
Oggi abbiamo ancora uno Stato amministrativo – non crediamo di esserne fuori! – ma esso non è più quello “feroce e cattivo” di un tempo, quando amministrazione significava allontanamento dei governanti dal popolo e, in definitiva, dalla democrazia; significava in una parola autorità, imperio e  comando  senza controllo popolare.
I costituenti mostrarono allora una grande diffidenza nei confronti dell’amministrazione e del potere regolamentare. Come ricorderete tutti, dell’amministrazione, nell’articolo 97 della Costituzione, si parla quasi a denti stretti, con poca convinzione e soltanto per dichiarare l’obbligo della legalità da parte dell’amministrazione.
Del potere regolamentare poi si parla soltanto con riferimento al Presidente della Repubblica e alle sue competenze. Non si parla dunque della potestà regolamentare rispetto al ruolo della legge,  ruolo di quest’ultima che invece viene enfatizzato.
Anche per le regioni può dirsi la stessa cosa: ricordo  di aver ricevuto l’incarico, insieme al professor Cassese, da parte della regione  Emilia-Romagna nel 1971, di predisporre un regolamento sull’attività amministrativa; cosa eccezionale, ma che non ebbe seguito.
Meditai allora sul ruolo del regolamento: era facile rendersi conto che le regioni non avevano alcuna intenzione di adottare regolamenti, perché era per loro preferibile  approvare una legge, che era sottratta al controllo del Consiglio di Stato, allora unico giudice di legittimità amministrativa.
La legge n. 400 del 1988 è stata preparata da una notevole riflessione e tende a ripristinare i poteri del Governo. Si avverte allora  un cambiamento alquanto forte, dal Parlamento, inteso come espressione della centralità dello Stato e dell’unità, al Governo e all’amministrazione, attraverso la disciplina degli strumenti normativi governativi: decreti-legge, decreti legislativi e soprattutto i regolamenti previsti dall’articolo 17.
Comincia così una nuova era; non vorrei dilungarmi su questo aspetto, mentre sarebbe interessante dire che la potestà regolamentare rappresenta effettivamente l’indice dell’andamento costituzionale, del modo di essere delle cose istituzionali e costituzionali.
Quando diciamo che il regolamento è in pratica diventato un torrente che dilaga in diversi rivoli, lo diciamo in pratica dell’amministrazione. Occorre  dunque muoversi con cautela all’interno di queste vicende. In questo caso, attraverso l’enfasi posta sull’amministrazione e sulla potestà regolamentare si realizza, senza volerlo, un nuovo centralismo.
Questo comporta, nella legislazione recente, che lo stesso legislatore si sia in qualche modo messo fuori campo da sé, nel senso che il legislatore entra nella disciplina dei rapporti pubblici, fissando principi e regole generiche, sempre più lontane da una presa diretta sulla vita pubblica.  Questo affidarsi, da parte del legislatore, ai principi determina che lo stesso legislatore si impoverisca, perdendo la sua capacità di penetrazione nella società. Si crea dunque un tessuto amministrativo, al di sotto della rappresentanza politica e della politica,  che pone nuovi problemi ai quali  Lupo dedica attenzione, con la sua capacità di indagine.
Anch’egli riconosce tuttavia che non è possibile  arrivare a conclusioni definitive su questo argomento. Si insinua anche in noi dunque quel pragmatismo che abbiamo sempre cercato di ripudiare, anche spontaneamente nel passato, preferendo certezze  e criteri meno legati all’osservazione delle cose.
Andrea MANZELLA. Il professor Berti ha appena  pronunciato una delle sue frasi che “rimangono”: il legislatore che si sente messo “fuori campo” da sé stesso.
Questo tipo di legislatore per principi, che crea autorità legiferanti, e che tuttavia registra momenti di “fuori campo”, continua a produrre leggi. Proprio ieri vi è stata alla Camera una conferenza importante del giudice costituzionale Zagrebelsky sulla scelta di Antigone fra il diritto e la legge.  Zagrebelsky dice: il mondo del diritto è saturo di leggi. E, a conforto di questa affermazione, offriva un dato statistico: i volumi delle “Leggi d’Italia”, che erano 33 nel 1963, sono ora 78.  In 40 anni sono dunque più che raddoppiati.
Zagrebelsky dice ancora che la politica di riduzione legislativa e di delegificazione è contraddetta dagli sviluppi di questa inflazione legislativa e che questa politica di deflazione legislativa è stata molto spesso invocata e mai attuata. Lo dice seguendo le invocazioni di Antigone: ma non quella analisi della realtà che invece Lupo compie nel suo libro, dove ci spiega che vi è stata invece una attuazione, persino accanita, di quella politica. Anche se ci mostra  le cause per le quali i risultati non sono stati appaganti.
Il libro, in un certo senso, come tutti gli studi di diritto in questo momento, fotografa una fase non definitiva, transitoria. C’è tuttavia anche un dato non precario nel lavoro di Lupo: questo è un altro libro “di mischia”, con un termine mutuato dal rugby. Certo sono più facili e più sereni i lavori del giurista che, come la nottola di Minerva esce quando tutto è compiuto, svolazzando su un campo definito. Ma i libri di Lupo cercano di vedere nel groviglio, di capire quello che è appena avvenuto. Si pensi alle quattro deleghe del Governo Amato del 1992, ai decreti legislativi  correttivi in itinere. Chi aveva mai sentito parlare della legge che si autocorregge in itinere?  Poi ancora la prima legge annuale di semplificazione ed infine questo “Dalla legge al regolamento”. Mentre dunque tutto è in movimento – potere normativo del Governo, potere normativo di regioni, province e comuni, potere normativo europeo –, Lupo si è buttato nella mischia, dove c’è rumore di armi e sudore, come Aiace Telamonio.
Questo è un libro che fa chiarezza, con un metodo mite e  dialogico tra l’autore e il lettore, fra il testo e le note. C’è infatti un enorme apparato di note, ma chi legge il testo è invogliato da questi rimandi. A volte le note appesantiscono, questa volta invece questo richiamo continuo tra le varie dottrine a confronto e tra tecnicismo giuridico e politica istituzionale è un elemento di trascinamento nella lettura. Con quel tema di cui si parlava poc’anzi sempre presente, l’ordine delle fonti che doppia l’andamento istituzionale. Si tratta dunque di un volume del quale, se si dovesse fare una recensione letteraria, si direbbe che l’impasto narrativo funziona.
I tanti problemi a cavallo tra il diritto amministrativo e il diritto costituzionale sono affrontati con disciplina, rigore ed equilibrio. Sul frontespizio di questo libro, si potrebbe mettere la frase che apre la relazione finale del gruppo IX di lavoro della Convenzione di Bruxelles: “non vi è nulla di più complesso della semplificazione”. Credo che questa frase l’abbia scritta Giuliano Amato, con spirito luciferino. E per chi si occupa del sistema delle fonti, la semplificazione degli atti normativi comunitari, prevista nel progetto di costituzione europea, produrrà “dolori”. Vi sono infatti cinque tipi di regolamenti europei.  Il regolamento volto all’attuazione degli atti legislativi; il regolamento volto all’attuazione di disposizioni specifiche costituzionali, senza dunque l’intermediazione della legge (europea, si intende); il regolamento direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri in quanto obbligatorio in tutti i suoi elementi; il regolamento obbligatorio in tutti gli Stati membri solo per quanto riguarda il risultato da conseguire; e c’è il regolamento europeo delegato, volto a completare o modificare determinati elementi non essenziali. Non c’è dunque da stare allegri se si tiene conto dell’intreccio di questa tipologia di atti.
Ed allora perché il lettore non specializzato in questa materia a cavallo tra diritto amministrativo e diritto costituzionale deve essere grato per questo libro? Perché esso rappresenta una bussola ed indica il trend di fondo di questo movimento, cercando di spiegare quello che può consolidarsi anche se è appena allo stato aurorale.
Penso alla lezione del grande premio Nobel per la termodinamica, mancato da poco, Ilya Prigogine, l’autore delle teorie del caos. Quando gli veniva chiesto se quelle sue teorie potessero essere applicate all’Italia, rispondeva che l’importante è individuare nel caos gli elementi che potrebbero consolidarsi. Questo era l’incoraggiamento che lui, con la saggezza di un grande vecchio, dava.
Un esempio di questa individuazione di moti destinati a consolidarsi, Lupo lo rinviene nella legislazione del 1993. Ho sempre pensato, e lo ho scritto anche nell’introduzione della nuova edizione del libro sul Parlamento, che il 1993 sia stato un anno di svolta per la nostra Repubblica per tre elementi decisivi: il referendum maggioritario, l’elezione diretta dei sindaci, l’entrata in vigore del trattato di Maastricht.  Adesso, sulla scia di Luisa Torchia, Lupo ha spiegato che il 1993 fu anche un anno di svolta perché proprio il 24 dicembre venne approvata la legge n. 537, che fornì il modello di delegificazione per le semplificazioni procedimentali che furono alla base della più famosa legge n. 59 dello 1997. Dovrò quindi scrivere una nota a quella introduzione: una nota che comunque avvalora il mio paragone tra il 1993 e il 1793 di Victor Hugo, anno memorabile, anno di grandi svolte e di grandi speranze.
Sicuramente le riflessioni di Lupo sul sistema delle fonti e la forma di governo si coniugano con quello che è la nostra democrazia ipermaggioritaria. Finora la fiducia nella buona stella repubblicana aveva portato un certo moto progressista verso questo incremento della forza normativa del Governo, ritenendo che mai i governi ne avrebbero fatto un uso anti repubblicano. Vi è stata la legge n. 400, il tentativo della Commissione D’Alema di superare quella formula costituzionale, a proposito del Presidente della Repubblica, che ammette i regolamenti a denti stretti.
In tal senso la Commissione D’Alema predispone sette commi per quattro articoli. Successivamente il ministro per la funzione pubblica Maccanico nel 2000 concepisce un primo “lodo”, dicendo che tutto quello che non è riserva di legge è norma regolamentare. Sosteneva in questo caso che sarebbe stata necessaria una modifica costituzionale e non certo una legge ordinaria. Dunque vi è stato un feeling nei confronti della forza normativa del Governo nel nostro trend costituzionale, anche condiviso. Ora è diverso, perché nel paese vi è la coscienza che si è creato uno squilibrio ed uno sbandamento.
Quindi di questo libro ci rimangono due cose. La prima è questo legame forte fra modi persino inediti del sistema delle fonti e forma di governo, con un interrogativo di fondo molto duro, quasi si dovesse arrestare un treno in corsa che ha acquistato velocità senza prestare attenzione ai semafori.
La seconda è che l’accendersi della “mischia” di cui parlavo riguarda ormai un’area vasta, non solo nazionale, ma continentale. Lupo si butterà anche in questa mischia.
Giorgio BERTI. Ringrazio Manzella per le considerazioni svolte, che hanno messo in luce le caratteristiche di fondo del libro, che in qualche modo, come già avvertito, ne fanno un libro “pacificatore”, che offre una dimensione buona di fatti cattivi, si potrebbe dire.  Ha quindi un grande merito, sempre importante quando si passa dalla dogmatica sistematica dura ad una razionalità tenue: adatta a cogliere fatti dalle consistenze non precise.
Ugo DE SIERVO. Il libro di Nicola Lupo, che  ho seguito nella fase di preparazione, ovviamente è molto, ed opportunamente, ricco di tantissimi  riferimenti non solo ai dibattiti dottrinali, ma anche alle vicende istituzionali e alle prassi che si sono sviluppate negli ultimi anni.
Da un po’ di anni sono esplicitamente polemico con tanti validissimi amici costituzionalisti che sulle fonti a volte si esercitano alquanto astrattamente; invece, le fonti, come non mai, sono strumenti del sistema politico, sia pure nel quadro costituzionale, e per questa ragione le idee e gli stessi principi costituzionali vanno “riverificati”.
Certo il lavoro in questo periodo è difficile perché sta cambiando moltissimo: la data di partenza è sempre la legge n. 400 del 1988, ma Lupo si è poi fatto “prendere la mano”, perché il titolo recita “Dalla legge al regolamento”, ma in realtà non si parla soltanto dei regolamenti, bensì anche degli atti normativi del Governo, decreti legge, decreti legislativi e quant’altro di assimilabile.
Naturalmente, un discorso del genere diventa sempre più complesso anche perché stiamo evidentemente vivendo – sempre di più se ne ha piena consapevolezza negli studi universitari – una fase di immensa trasformazione; anche se i numeri delle fonti non dicono tanto, è comunque del tutto evidente che negli ultimi anni il rapporto, anche quantitativo, fra gli atti con forza di legge, o meglio tra legge formale del Parlamento, atti del Governo e  norme regolamentari, è radicalmente rovesciato. Ricordo che quanto si predisponevano i primi studi sull’applicazione della legge n.400, nel lontano 1989, i regolamenti erano 64,  tra ministeriali e governativi.  Ora il numero è di 400 regolamenti nell’ultimo biennio; e non sono considerati i regolamenti delle autorità amministrative indipendenti, che spesso sono regolamenti “pesanti”, né l’intero insieme delle fonti regionali.
Siamo dinanzi ad una svolta storica perché, con tutte le prudenze del caso nell’usare i numeri in questi settori, produce più norme il Governo che il Parlamento. Naturalmente vi possono essere regolamenti “piccoli”, a volte vi sono però anche leggi-fotografia.
Dinanzi a questo fenomeno, certamente bisogna  cercare di capire cosa stia succedendo, cercando di comprendere se le categorie concettuali che stiamo utilizzando funzionino ancora, anche perché si assiste all’emersione di tipologie totalmente nuove, che vanno dai decreti legislativi correttivi ed integrativi, ai regolamenti delegati, per finire alla legge annuale di semplificazione, tutte cose che non esistevano pochi anni addietro.
Il Governo in questi giorni sta per approvare il testo unico sulla protezione dei dati personali, sulla base di una delega legislativa, dopo che la legge del 1996, che recepiva una direttiva comunitaria nel quale quindi il contributo autonomo del Parlamento italiano è stato relativo, e che è stata integrata e corretta da dieci decreti delegati. Abbiamo quindi un piccolo corpo normativo che “arriva” al testo unico, sulla base di una legge modificata per dieci volte dal Governo con una delega molto “aperta” in termini di decreti correttivi ed integrativi; qualcosa del genere, qualche anno fa, sarebbe stato totalmente inimmaginabile.
Da studioso del diritto costituzionale, devo dire che  è bene studiare tutto ciò che è  nuovo, ma di qualche problema di separazione,  quando si parla di fonti, occorre farsi carico.
La distinzione tra fonte primaria e secondaria non è formale, bensì  sostanziale, perché l’efficacia giuridica è diversa e diversi sono gli organi e i poteri di controllo. Collegare troppo strettamente le trasformazioni di categorie di fonti che sono profondamente diverse può indurre a qualche problema.
Peraltro, da studioso delle fonti e dei suoi meccanismi di funzionamento, mi pongo il problema relativo alla centralità del Parlamento e del procedimento legislativo.  Tutti noi abbiamo studiato i luoghi  impropri e le procedure improprie di elaborazione delle leggi. Devo dire che nessuno può studiare i modi impropri di elaborazione dei decreti legislativi e dei regolamenti. Usando un’espressione retorica: chi è il Governo che adotta regolamenti e decreti legislativi? Questo è un interrogativo che ripropongo da qualche tempo. Sicuramente è il Governo della Repubblica che predispone decreti-legge, decreti legislativi e regolamenti, ma noi sappiamo che in “preconsiglio” arrivano prodotti che vengono coordinati rapidamente e dai quali non si è in grado di comprendere esattamente il luogo della responsabilità. Da costituzionalista mi pongo sempre questo problema: chi elabora i decreti legislativi e i regolamenti?
La storia della legge n. 400 del 1988 è anche la storia dei tentativi, per lo più abortiti, da parte degli organi governativi, di valorizzare la fase di elaborazione delle fonti normative. Senza andare troppo indietro nella storia, penso alla stagione delle leggi Bassanini, in cui forte è stato il tentativo di potenziare il Dipartimento affari legislativi. La creazione del Nucleo per la semplificazione e dell’Osservatorio sulle semplificazioni rappresentano infine un tentativo assai rilevante di creare presso la Presidenza del Consiglio un luogo istituzionale ed autorevole che finalmente diventasse la sede propria delle scelte legislative e normative. Tuttavia, questa scelta pare sia stata letteralmente demolita nell’ultimo periodo. Domando allora: se queste nuove entità che si stava cercando di predisporre non esistono, chi scrive i decreti legislativi o i regolamenti?   Certo, gli uffici legislativi dei Ministeri, il che con un Governo a forte guida da parte di un leader pone curiose conseguenze. Proprio nel momento in cui si dice di voler valorizzare la figura del Presidente del Consiglio si assiste ad un indebolimento delle strutture della Presidenza del Consiglio.
Questo tanto più perché non è vero che non esistano problemi: senza entrare nei particolari di vicende che arrivano perfino al vaglio della Corte costituzionale, qualche volta si può constatare come le autorità ministeriali o vogliano adottare norme regolamentari sulla base di meri poteri amministrativi. Intorno al potere regolamentare infatti non tutto è pacifico. Spesso nella lentezza o nell’assenza delle procedure previste in via legislativa, organi costituzionali o ministeriali tentano di  ritagliarsi un proprio potere normativo.
Tornando al libro di  Lupo, sicuramente esso è consigliabile a chi vuole capire cosa è successo e cosa stia avvenendo.  Vi sono poi alcuni punti di arrivo. Non condivido questa quasi assimilazione degli atti normativi  secondari a quelli primari: mi sembra estranea al quadro costituzionale. Vi sono alcuni episodi di degenerazione a mio parere nell’ultimo periodo, rispetto ai quali non si può soltanto prenderne atto, ma farlo criticamente.
Ancora qualche riflessione su quella sorta di piccola o grande riserva di regolamento che in via legislativa ordinaria si è creata sul piano degli ordinamenti della pubblica amministrazione, e che assomiglia veramente a quanto era previsto nella legge n. 100 del 1926, quando il potere regolamentare del periodo fascista poteva riformare anche le strutture ministeriali. Un istituto che è stato creato “a colpi” di modifiche successive non può non creare qualche riflessione critica nei commentatori. Su un punto è dovuta intervenire anche la Corte costituzionale, con riferimento ad esempio a quei particolari regolamenti  relativi alla organizzazione della Presidenza del Consiglio configurati dal decreto legislativo n. 303 del 1999 come una sorta di regolamento di un organo costituzionale, allorché nei manuali ancora si insegna che non è la Presidenza del Consiglio dei ministri un organo costituzionale, bensì il Governo. In ogni caso, storicamente il Governo non si dota di regolamenti con efficacia analoga a quelli parlamentari, atti solamente subordinati alla legge.
La Corte in quel caso è intervenuta reintroducendo una qualche forma di controllo da parte della Corte dei conti in modo da normalizzare la prassi. Attraverso questi esempi si vuole dire che nel complesso di una comprensibile trasformazione istituzionale, che è intervenuta soprattutto nella legislatura scorsa, vi sono stati punti che sollecitano momenti di riflessione critica. Tutto rischia in qualche misura di rappresentare però un “sorvolo” da parte dei giuristi ridotti al ruolo dei fotografi.  Anche nelle fotografie occorre tuttavia selezionare punti di vista.
Lupo ricorda un passaggio di diversi anni fa, da parte dell’oratore che mi ha preceduto, il quale diceva che alla grande  espansione dei regolamenti deve corrispondere la loro tipizzazione. Ed allora esistono controlli efficaci nei confronti del potere regolamentare?  Forme di partecipazione democratica e trasparenti?  Siamo lontanissimi! Tutti noi attendiamo una “bella” legge sulle fonti –  non di quelle ordinarie, come pure si è tentato nella legislatura passata -, né mi sento di auspicare che questo Parlamento pensi alla legge costituzionale sulle fonti, perché vi sarebbe un qualche problema di credibilità.
La dottrina deve quindi ringraziare studi come quelli di Lupo che da un lato offrono materiale rilevante e dall’altro evitano  ricostruzioni enfatiche del tipo: la novità per la novità.
Un ultimo esempio riguarda i regolamenti regionali riformati dalle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001: tanti si sono entusiasmati. Invece siamo di fronte alla constatazione che le regioni, pur avendo la potestà statutaria, da alcuni anni non hanno adottato alcuna normativa adeguata sulle tipologie e sul ruolo del potere regolamentare.
Mi sembra che occorra dunque dare atto di queste difficoltà e di questo entusiasmo che coglie tutti noi studiosi, senza prima verificare concretamente i fatti. Un altro esempio: alcuni giuristi di fronte ai regolamenti degli enti locali hanno parlato di nuove norme primarie o subprimarie; poi è arrivata la legge La Loggia, che se non sbaglio demolisce tutto con due righe.
Anche in questo caso, prima di predisporre teorie, occorre evitare il rischio di enfatizzare qualsiasi novità, anche semplicemente accennata o progettata, facendo una media fra le nostre aspirazioni e ciò che avviene e che può avvenire realisticamente nel corpo sociale nel quale viviamo.
Giorgio BERTI. sevo dire che condivido molto quanto ha detto De Siervo, ma vorrei anche aggiungere che vi sono movimenti sotterranei nell’ambito della amministrazione E della potestà regolamentare che crescono probabilmente per forze che non sono soltanto quelle che constatiamo nella nostra vita istituzionale, ma che riguardano qualcosa di più ampio. C’è qualcosa che si muove a favore di un tipo di democrazia che non è soltanto quella parlamentare, che si muove al lato o al di là della legalità formale e tradizionale.
Il libro di Lupo deve essere guardato da questa dimensione.
Fabio Severo SEVERI. In occasioni come queste di solito il pericolo che si corre è che si finisca per ripetersi.  Mi sembra tuttavia che gli argomenti affrontati da Lupo non facciano cadere in questa trappola usuale. Vi sono infatti tutta una serie di indicazioni, ma anche tutto l’entusiasmo, in virtù del quale l’autore ci mette dentro tutte le sue curiosità, i problemi e le perplessità che egli ha avuto, anche nell’apparato di note, che in certe parti è più stuzzicante che non il testo.
Vi è quindi la ricostruzione della prospettiva storica del fenomeno dell’esercizio del potere normativo del Governo, la dottrina sulle fonti relative all’organizzazione amministrativa, l’introduzione della riserva di legge.
Ci sono inoltre tantissimi spunti di riflessione su questo fenomeno della semplificazione e della delegificazione. Mi permetto di fare riferimento, come ha fatto il professor Manzella, a fatti che ci coinvolgono personalmente.  Ho partecipato ad una sola campagna elettorale, a Milano nel 1994, ed il tema dominante era quello del numero enorme di leggi e della conseguente necessità di semplificare.  A dieci anni di distanza recente siamo alla discussione fra Cassese e Violante sul numero effettivo di queste leggi, se siano tante o poche: ognuno quindi le conta come vuole!
Mi soffermerò, nel tentativo di essere originale, sul tema della fuga dal regolamento, oltre che sui regolamenti di delegificazione. Una cosa da tenere presente è che quando si parla di norme regolamentari non lo si fa con riferimento ai regolamenti di attuazione delle leggi. Non si parla del regolamento di attuazione delle leggi sulla circolazione stradale: si parla di norme di diritto amministrativo.
A questo punto, mi domando per quale ragione non vi sia un minimo di riferimento sulla normazione extra ordinem.  È ben vero che Paladin a suo tempo scriveva che la normazione extra ordinem sostanzialmente non esiste, è un fatto marginale. È ben vero che a me, a parole, diceva che un codicillo al volume delle fonti occorre inserirlo perché questo fenomeno sta diventando più importante  di quello che si immaginava.
Va dunque prestata attenzione alle norme di chiusura sulla produzione normativa. In tal senso, si pensi a quanto sta avvenendo con le ordinanze di protezione civile in materia ambientale, che ci fa pensare quanto la ricostruzione di questo sistema sia estremamente complicata ed articolata.
Voi sapete come le ordinanze di protezione civile siano in effetti  norme sulla produzione; sono norme che non soltanto autorizzano l’adozione di atti amministrativi, ma permettono tutta una cascata ulteriore di “momenti” amministrativi.  Come si pongono nella ricostruzione delle fonti del diritto amministrativo, che cerchiamo di compiere anche sulla base della trattazione di Lupo, queste nuove situazioni?  Sono fonti o non lo sono?
Occorre necessariamente trarre qualche considerazione. In primo luogo sulla forma di governo, come fa Lupo, mai in modo mite, per usare la terminologia suo tempo adottata da Zagrebelsky.  Vengo dal Friuli-Venezia Giulia, dove stiamo vivendo l’esperienza della riscrittura dello statuto di autonomia, con la definizione della forma di governo. Eppure, dalla forma di Governo deriva un certo tipo di sistema delle fonti e viceversa.
La mia perplessità è la seguente: cosa resta allora della pubblica amministrazione, sempre più ingessata da questo apparato normativo estremamente puntiglioso?  A dir la verità, Lupo cita lo Zanobini, che era un maestro chiaro per riferirsi all’essenza dell’attività amministrativa.
Cita il saggio di Zanobini sull’attività amministrativa del 1924, il che è un vezzo, perché quel saggio dello Zanobini è ripreso pari pari nel primo volume del testo del Corso del 1958.  Questo volume è ancora, malgrado tutto, la cultura corrente  della gran parte della burocrazia nostrana.
Cosa resta allora della pubblica amministrazione, o meglio della discrezionalità dell’amministrazione, che di fronte a tutti questi regolamenti si traduce soltanto nel momento dell’esercizio del potere regolamentare, perché l’atto amministrativo è diretto alla puntuale osservanza della norma secondaria che è particolarmente puntigliosa?
A mio avviso, questo non deriva soltanto da una certa elefantiasi della normazione, ma anche dalla informatizzazione e da una certa omogeneità necessaria. Ora infatti i provvedimenti sono pochi, il più delle volte già stampati.
Se qualcuno di voi ha pratica di un ufficio della amministrazione pubblica, sa come vi sia una fuga dall’assunzione di qualsiasi responsabilità. Non c’è più nessuno che minuti un atto amministrativo. E’ già tutto tipizzato: bisogna soltanto accedere al modulo giusto, premere  il bottone e farlo stampare con i dati portati.  E’ un sistema ingessato che comporta anche la necessità di avere una serie di norme “a monte” che permettono questo tipo di attività.
Mi domando allora se l’amministrazione sia ancora quella che veniva definita dallo Zanobini, ovvero quella che, sulla base del principio di legalità e dei fini indicati dalla legge, puntualizza, di volta in volta, discrezionalmente il contenuto del provvedimento puntuale.
Luisa TORCHIA. Parlare per ultima comporta un vantaggio ed uno svantaggio: il primo è che molte cose sono state già dette e lo svantaggio è che molte cose sono state già dette ed è quindi difficile essere originali.
Mi soffermerò quindi soltanto su alcune questioni, in particolare laddove nell’ultimo capitolo l’autore dice che forse si sta aprendo una fase nella quale nuovamente il flusso e la tendenza saranno “dal regolamento alla legge”. Vorrei soffermarmi di più su questo aspetto: il libro, è già stato detto, è da leggersi per numerose ragioni ed affronta un tema classico, ma attuale.  L’autore tiene bene insieme i capi della tradizione e del futuro, perché parlando di fonti è facile cadere nella deprecatio temporis e dire che in passato vi era un sistema così ordinato, nel quale si sapeva cosa fosse la gerarchia e la competenza; poi è arrivato il caos  che tutto ha disordinato.
Se poi si vanno a leggere i testimoni dell’epoca si scopre che in genere anche le epoche passate erano molto meno ordinate, o perlomeno percepite come molto meno ordinate da chi scriveva di quanto non le percepiamo noi. Questa è una tentazione che questo libro evita, anche perché è un libro completo, trattando il tema con un’attenzione rivolta sia alla storia e all’evoluzione sia all’ordinamento, sottraendosi a quell’altra tentazione molto forte della produzione di libri a mezzo di libri, per cui il libro altro non è che una sintesi, nel migliore dei casi una discussione, di tesi esposte in altri libri. In questo caso invece Lupo non si ferma a quella parte dell’ordinamento che è costituita dalla dottrina, parte pregevole ma sempre molto piccola dell’ordinamento, esaminando  invece la potestà regolamentare per come essa è stata esercitata e, come ricordava prima De Siervo, la esamina insieme alle altre fonti, che si collocano accanto alla potestà regolamentare, a volte in termini sostitutivi,  a volte essa stessa sostituita.
Vi è dunque un’analisi attenta dell’uso dei decreti delegati e nell’uso dei decreti-legge: questo è importante perché in questo modo noi comprendiamo la relazione fra le diverse fonti non soltanto nel modello che si dà per presupposto, ma le relazioni per come si sono strutturate nel diritto vivente, tenendo conto dei profili problematici che sono stati sollevati e che sono reali.
Questo consente che l’analisi del sistema delle fonti, espressione che subito criticherò, venga svolta in questo libro con riferimento alla forma di governo, anche se il riferimento non è immediato ed in primo piano, ma si nota molto bene sullo sfondo.
Il libro comincia dicendo proprio che il sistema delle fonti come sistema non esiste più, ed è sempre meno sistematico.  Se dunque proprio la categoria del sistema non corrisponde più alla realtà, bisogna interrogarsi sulle ragioni, che vengono indicate nel libro: l’ordinamento non è più monista in più di un senso, perché da tempo vi è un coordinamento ed ormai anche dopo l’entrata in vigore del nuovo titolo V della Costituzione, esso è permanentemente aperto all’influenza dell’ordinamento comunitario e quindi di altri quindici, domani venticinque, paesi europei.
Un ordinamento che non è più liberale o soltanto liberale, ma che specificamente per quanto riguarda l’Italia, è un ordinamento che in termini di sistema politico non può essere più letto con le categorie tradizionali, ovvero dell’esecutivo debole in un sistema proporzionale.
Dopo il cambiamento della legge elettorale e l’approdo a questo peculiare maggioritario italiano, sono cambiate anche le relazioni fra il Governo ed il Parlamento.
Lupo mette in evidenza nel suo libro come questa pluralizzazione e complicazione del sistema dipenda non soltanto dal fatto che esiste una pluralità di soggetti di produzione, dove prima vi era lo Stato, oggi ci sono tutti gli enti di cui all’articolo 114 del nuovo titolo della Costituzione e accanto a questi vi sono, oltre alle autonomie territoriali, le autonomie funzionali, i regolamenti dell’università, degli istituti scolastici, delle autorità indipendenti e quant’altro. Per questa ragione, se di un criterio occorre parlare, è quello della competenza, che è più diffuso di quello della gerarchia.
Sembrano alquanto inutili i tentativi di teorizzazione cui faceva prima riferimento, criticandoli, secondo me giustamente De Siervo, sulle fonti primarie, subprimarie, paraprimarie. Il problema non è questo, ma resta da stabilire su cosa la fonte interviene e a quali condizioni di legittimità può intervenire su quello, ma anche  i criteri della competenza si moltiplicano perché non sono più soltanto quelli relativi all’ente esponenziale del territorio, ma sono relativi alla natura dell’ente, perché si tratta di un ateneo, di un istituto scolastico e di quant’altro.
Accanto a questa pluralità di soggetti di produzione normativa, Lupo mette in evidenza come vi sia una pluralità di meccanismi di produzione, in un modo ancora molto incerto, ma i riferimenti che egli fa all’analisi sull’impatto della regolamentazione (Air) e all’analisi tecnico-normativa, non sono che tentativi molto rudimentali per ora e con risultati molto ridotti di avere meccanismi di produzione delle fonti maggiormente presidiati ed aperti di quanto non fosse in passato.
Egli mette in evidenza il tentativo, anche questo con risultati ridotti, di produrre norme con la partecipazione delle parti sociali – il patto di Natale, l’Osservatorio sulle semplificazioni, insieme a tutti i sindacati, la Confindustria e la Confcommercio – e  come si fondano forme, quelle che nell’ordinamento comunitario si direbbero soft law, ovvero forme di determinazione di regole che si reggono più sull’accordo dei soggetti che quelle regole rispettano che non sulla forza del valore formale.
Da questo punto di vista, credo che il fatto che vi sia il tentativo di moltiplicare e cambiare i meccanismi di produzione delle fonti, oltre ai soggetti, è indice della consapevolezza che la potestà normativa, parliamo in generale, come potere, non deve avere soltanto dei limiti, per cui non deve oltrepassare i limiti ed “entrare” laddove non le è consentito, ma deve avere anche delle giustificazioni.  Quando si parla di analisi dell’impatto della regolazione, quello che ci si chiede è se sia giustificata questa norma e  se poi gli effetti dell’impatto siano almeno non negativi e possibilmente positivi?
Se pensate all’ordinamento comunitario questo già esiste: le leggi, gli atti normativi comunitari sono normalmente giustificati attraverso un’articolata motivazione. Tutti infatti i “considerando” che vengono prima dei contenuti delle direttive non sono altro che la motivazione della disciplina che con quell’atto si adotta.  Quella motivazione viene spesso utilizzata come parametro dalla Corte di giustizia per valutare sia la bontà della regola sia eventualmente la violazione della regola stessa.
In questo libro vi è dunque un’attenzione alla storia, ai contenuti della potestà regolamentare, cosa molto rara e particolarmente faticosa perché bisogna prendere i regolamenti uno per uno, “aprirli” e guardare ciò che vi è  dentro, e non ci si può limitare a contarli o a pesarli.
Per la storia a me sembra che Lupo identifichi come modello di discontinuità non la legge n.400 del 1988, bensì la n. 421, la famosa legge collegata alla finanziaria di Amato del 1992 che conteneva le quattro grandi deleghe di riforma (finanza locale, pubblico impiego, previdenza e sanità), laddove si fa a volte un uso della delega legislativa fortemente indirizzato a cambiare le condizioni di funzionamento dell’amministrazione, e che porta con sé nuove fonti, per esempio il contratto collettivo.
Il decreto legislativo n. 29 del 1993, adottato in attuazione della legge n. 421, sostituisce per un intero ed importante settore della amministrazione, il pubblico impiego, alla legge  il contratto, per la parte contrattualizzata. Interviene quindi sulle fonti in maniera molto significativa.
Nella storia Lupo ricorda il passato: la legge n. 537 del 1993, con i primi regolamenti di delegificazione e di semplificazione, la legge n. 59 del 1997; infine la legge n. 50 del 1999, con l’istituzione del Nucleo per la semplificazione;  ci ricorda anche che questa fase si è chiusa.
Non vi sono più grandi preoccupazioni su quanta semplificazione vi sarà nel futuro perché essendo stato abolito e soppresso il Nucleo per la semplificazione – basta guardare le vicende dell’ultima legge di semplificazione che è stata rinviata dal Presidente della Repubblica per mancanza di copertura, continuando questa difficile navette fra prima e seconda Camera – con una semplificazione ormai affidata agli uffici legislativi dei ministeri, abbiamo poche speranze, o paure a seconda dei casi.
L’attenzione ai contenuti delle fonti è importante: Lupo mette in evidenza i contenuti ed i modi in cui sono stati usati i regolamenti, i decreti delegati, i decreti-legge, gli atti di attuazione e di recepimento del diritto comunitario; i risultati sono interessanti, ma non li richiamo.
Una potestà regolamentare è affidata alle regioni che colpevolmente non adottano i loro statuti e che quindi non producono regole sulle fonti regionali, regole che dovrebbero ovviamente stare negli statuti regionali per avere un quadro chiaro delle modalità di articolazione del rapporto fra legge statale, legge regionale e regolamenti statale e regionale; rapporto che è tutto da costruire. Un esempio: se è vero che lo Stato dispone di potestà regolamentare nelle materie in cui ha legislazione esclusiva e se questa potestà legislativa è quella di una delle cosiddette clausole trasversali, in questo caso – tutti lo hanno dichiarato e persino la Corte ha iniziato a dirlo in qualche obiter dictum – non si tratta di una materia in senso proprio, ma di una clausola di competenza che consente allo Stato di entrare anche in materia di potestà legislativa concorrente – sanità – o in materia di potestà legislativa residuale delle regioni.
In questi casi, dove c’è potestà legislativa esclusiva statale per la determinazione dei livelli essenziali, c’è anche potestà regolamentare? E l’eventuale regolamento statale come si pone rispetto alla legge regionale nella stessa materia sulla quale la regione ha potestà legislativa?
Si complica molto, dunque, il rapporto tra funzione normativa e funzione amministrativa e tale complicazione andrebbe studiata anche sotto un profilo normalmente poco studiato, ossia quello delle tutele. Secondo un modello un po’ stereotipo – al quale ormai nessuno più aderisce, ma che ogni tanto ritorna  – la legge che tutela i cittadini ha in se stessa la sua tutela per il solo fatto d’essere legge; contro l’amministrazione e contro il regolamento che è parte di quelle potestà amministrative normative e governative è data tutela. Tuttavia, in questo quadro il regolamento era diventato una sorta di punto di equilibrio, grazie anche all’evoluzione della legislazione ordinaria, perché erano previste delle garanzie – ci sono delle garanzie – relative sia al procedimento di produzione del regolamento, come dimostra il fatto che il Governo preferisce adottare decreti-legge, sia contro il regolamento perché sul regolamento, oltre al controllo preventivo, è previsto un controllo successivo diffuso, perché è sempre impugnabile, ove fosse lesivo e si riesca a dimostrare che è lesivo, dinanzi ad un giudice. Se – come dice Lupo – siamo di fronte alla possibilità di un ritorno dal regolamento alla legge, forse bisognerà anche tornare ad interrogarsi su quanta tutela offra la legge e su quanta tutela occorra nei confronti della legge.
Per questo, se Antigone, per un caso strano, volesse ancora oggi scegliere tra il diritto e la legge, troverebbe tutela contro la legge?


Piero Gambale