Azioni esecutive ed imposta di registro, i lumi della corte costituzionale. La sentenza n. 522 del 2002

28.02.2003

Sommario
1. Il caso e le argomentazioni del rimettente;
2. L’intervento del Presidente del Consiglio;
3. Note e memorie di parte privata;
4. La pronuncia: leitmotiv, diritto, soluzione.

1. IL CASO E LE ARGOMENTAZIONI DEL RIMETTENTE.
Con Ordinanza del 13 giugno 2001, il Presidente del Tribunale di Roma, nel corso di un procedimento introdotto avverso il rifiuto, da parte del cancelliere dello stesso tribunale, di rilasciare copia autentica di una sentenza pronunciata in una controversia civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 (principio di ragionevolezza) e 24 (tutela dei diritti) della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 15 e 66 del D.P.R. 26 aprile 1986, n° 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui non consentono il rilascio della copia esecutiva se non dopo il pagamento dell’imposta di registro. Il rimettente ha dichiarato che il procedimento è stato instaurato, ex art. 745 del codice di procedura civile, da Olga D’Aiello, vedova del regista Pietro Germi, avverso il rifiuto del cancelliere del tribunale di rilasciare copia autentica della sentenza n° 33737 del 2000, munita della formula esecutiva, con la quale era stata accolta (con il favore delle spese per £. 12.300.000 ed il riconoscimento degli interessi legali dal 30 luglio 1997) la domanda da lei proposta contro l’avvocato Galli, per ottenere la restituzione della somma di £. 2.424.480.000, a suo tempo affidata al medesimo per l’amministrazione del proprio patrimonio, alla quale non poteva provvedere per la propria complessa situazione familiare. Il rilascio della copia della sentenza è stato chiesto dalla D’Aiello per procedere ad un’azione esecutiva nei confronti del debitore ed il cancelliere ha dichiarato di non poter rilasciare la copia, adducendo che l’art. 66, comma 1, del segnalato D.P.R. impedirebbe il rilascio di copia esecutiva di una sentenza senza previo pagamento al fisco dell’imposta di registro, che ammonta nella specie a £. 81.870.000. Nel proporre il ricorso ex art. 745 del codice di procedura civile, la D’Aiello, adducendo di non disporre della somma dovuta a titolo di imposta, ha prospettato la questione di costituzionalità. Il rimettente ha rilevato di essere legittimato a sollevare la questione di legittimità costituzionale, poiché la Corte Costituzionale nella sentenza n° 414 del 1989, e la Corte di Cassazione nella sentenza 20 marzo 1986, n° 1973, avrebbero riconosciuto natura giurisdizionale al procedimento ex art. 745 citato quando sia instaurato avverso il rifiuto del cancelliere di rilasciare copia esecutiva di una sentenza. Il rimettente, inoltre, dopo avere rilevato che il disposto dell’art. 66 citato sarebbe in contrasto con il c.d. principio di eguaglianza, con il c.d. principio di ragionevolezza nonché con il c.d. diritto alla tutela giurisdizionale, osserva che, pur essendo prevista dall’art. 15 del D.P.R. citato la possibilità della registrazione d’ufficio in caso di mancata richiesta da parte dei soggetti indicati nell’art. 10 del D.P.R. (e contestuale deposito della somma), essa è comunque subordinata espressamente alla previa riscossione dell’imposta dovuta, onde resterebbe assodato che il mancato pagamento dell’imposta impedisce la registrazione e, quindi, la possibilità del rilascio della copia da parte del cancelliere. Il contrasto del menzionato art. 66, comma 1, con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. emergerebbe per la differenza di trattamento che vi sarebbe fra il cittadino che sia in grado di pagare immediatamente l’imposta di registro, al quale sarebbe consentito, proprio in conseguenza delle sue condizioni economiche, di intraprendere un’azione giudiziaria esecutiva, e quello che non abbia i mezzi sufficienti per ottemperare a tale pagamento, al quale, invece, la possibilità di intraprendere tale azione sarebbe resa difficile e talvolta impossibile in forza di un presupposto stabilito dalla legge e consistente nell’onere di versare una somma eventualmente, assai ingente. Queste osservazioni sono state dal rimettente ritenute idonee a giustificare anche la censura ex art. 24 Cost., dato atto che in tale norma, (come la Corte Costituzionale ha riconosciuto nella sentenza n° 21 del 1961 nel dichiarare l’incostituzionalità del solve et repete) il diritto di agire in giudizio è garantito a tutti allo scopo di assicurare l’uguaglianza di diritto e di fatto dei cittadini in ordine alla possibilità di ottenere tutela giurisdizionale. Il diritto alla difesa, secondo il rimettente, non potrebbe essere condizionato al pagamento di un’imposta ed a riprova di ciò il rimettente richiama la sentenza della Corte Costituzionale n° 8 del 1993 che ha precisato che, non essendo il mancato od insufficiente pagamento dell’imposta di bollo ostativo alla produzione in giudizio di documenti e di difese scritte, resterebbe escluso che tale forma di imposizione possa precludere o pregiudicare il diritto di agire in giudizio riconosciuto dall’art. 24, primo comma, della Costituzione. In ordine alla violazione del principio di ragionevolezza, il rimettente rileva che sarebbe dimostrata dal fatto che la parte ricorrente,
dopo avere consegnato tutto il denaro che possedeva al proprio avvocato, si trova nell’impossibilità di ottenerne la materiale restituzione, in quanto non possiede l’ulteriore somma per provvedere alla registrazione della sentenza di condanna emessa nei confronti dell’avvocato.

2. L’INTERVENTO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO.
E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria, nella quale ha sostenuto che la sollevata questione sarebbe infondata, in base ai principi affermati dalla Corte in ordine al problema degli oneri fiscali, in relazione al diritto di agire in giudizio. In proposito, viene riproposto un passo della motivazione della sentenza d Corte Costituzionale n° 7 del 1999, nel quale, facendo riferimento alle sentenze della stessa Corte n° 45 del 1963 e n° 157 del 1969, si è precisato che la Costituzione non vieta di imporre prestazioni fiscali in correlazione con il processo, sia che configurino autentiche tasse giudiziarie, sia che abbiano riguardo all’uso di documenti necessari alla pronuncia del giudice, nonché che l’interesse alla riscossione dei tributi è dall’art. 53 Cost. posto sullo stesso piano di ogni diritto individuale. Proprio la ‘costituzionalizzazione’ di tale ultimo interesse, secondo l’interveniente, giustificherebbe una disposizione come l’art. 66, comma 1, del D.P.R. n° 131 del 1986. Per altro verso, il rimettente non avrebbe considerato che tale D.P.R. prevede delle deroghe al principio espresso dalla citata norma, consentendo in alcuni eccezionali casi di evitare il pagamento dell’imposta di registro, come nell’ipotesi prevista dall’art. 59, comma 1, del D.P.R. di registrazione a debito delle sentenze emesse nei confronti di soggetti ammessi al gratuito patrocinio, ai sensi del Regio Decreto 30 dicembre 1923, n° 3282 (Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio), nonché ai sensi degli artt. 15-bis e seguenti della Legge 30 luglio 1990, n° 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), nel testo introdotto dall’art. 13 della Legge 29 marzo 2001, n° 134 (Modifiche alla Legge 30 luglio 1990, n° 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), nonché in quella di cui al punto d) del medesimo art. 59, concernente le sentenze che condannano al risarcimento del danno prodotto da fatti costituenti reato. In questi due casi il Legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, avrebbe individuato due fattispecie nelle quali l’interesse alla riscossione delle imposte non può prevalere di fronte a situazioni particolari, in cui, rispettivamente, la situazione di indigenza del soggetto sia tale per cui il pagamento del tributo si rivelerebbe un ostacolo insuperabile all’esercizio dell’azione e l’esercizio dell’azione è finalizzato al ripristino di una situazione patrimoniale lesa da un illecito penale. Altre deroghe, però al solo rilascio di copia autentica della sentenza previo pagamento dell’imposta, sarebbero contenute, inoltre, nello stesso comma 2 dell’art. 66. Al di fuori dei casi previsti, l’interesse alla riscossione dovrebbe, contra, prevalere e, del resto, non potrebbe ammettersi che la Corte possa introdurne altri. La lesione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento, sarebbe insussistente, essendosene il Legislatore fatto carico con la disciplina del gratuito patrocinio. Quella dell’art. 24 Cost. a sua volta sarebbe insussistente, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nell’Ordinanza
n° 215 del 2000, osservando che il rischio per l’attore vittorioso di dover pagare l’imposta di registro, se rientra nel generale calcolo di convenienza sull’esercizio dell’azione giudiziaria, non si traduce, per ciò solo, in un impedimento alla tutela giurisdizionale dei propri diritti.

3. NOTE E MEMORIE DI PARTE PRIVATA.
Per proprio conto la parte privata Olga D’Aiello, ha precisato innanzitutto, di essere stata costretta a convenire in giudizio l’avvocato Galli a fronte del suo rifiuto di restituirle la somma affidatagli perché ne curasse l’amministrazione e provvedesse ad investirla e di avere ottenuto sequestro conservativo dallo stesso Tribunale di Roma fino a concorrenza della somma di £. 2.600.000.000 e di averlo eseguito mediante trascrizione del provvedimento cautelare su beni immobili di proprietà del suddetto avvocato. La parte ha specificato che nel corso del
giudizio di merito erano state eseguite sui beni sequestrati alcune procedure esecutive immobiliari nelle quali erano intervenuti numerosi creditori dell’avvocato Galli, con la conseguenza che in sede di ripartizione del ricavo della vendita dei beni sarebbe stata assegnata ad essa deducente una somma molto inferiore rispetto all’importo del suo credito. Per tale ragione essa si era indotta a richiedere il rilascio della copia esecutiva della sentenza di merito al fine di intraprendere ulteriori azioni esecutive nei confronti dell’avvocato Galli. Nel merito della questione si riprendono gli argomenti dell’ordinanza di rimessione, con il richiamo di un passo della sentenza della Corte Costituzionale n° 21 del 1961. Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la parte privata ha depositato una memoria illustrativa, nella quale ha richiamato il passo della sentenza della Corte Costituzionale n° 80 del 1966, in cui, per risolvere il problema della compatibilità degli oneri fiscali con il diritto di azione, si era distinto fra gli oneri ricollegati alla pretesa dedotta in giudizio allo scopo di assicurare uno svolgimento del processo conforme alla sua funzione, da ritenersi consentiti, e quelli che tendono a soddisfare interessi assolutamente estranei a tale finalità, che invece incorrerebbero in incostituzionalità. Sulla base di tale principio, si sostiene che la questione di costituzionalità sollevata dal Presidente del Tribunale di Roma sarebbe fondata, in quanto il divieto di rilascio della copia esecutiva sarebbe funzionale ad un onere fiscale estraneo al giudizio in se stesso, poiché l’unico onere fiscale razionalmente collegato al giudizio da promuovere sarebbe quello relativo al pagamento del c.d. contributo unificato per le spese degli atti giudiziari, di cui all’art. 9 della Legge 23 dicembre 1999, n° 488. Vengono citati, quindi, passi delle sentenze n° 61 del 1970 e n° 157 del 1969, nei quali si sottolineò che il diritto di azione va contemperato con l’interesse generale alla riscossione dei tributi, e si osserva che nel caso di specie non è in contestazione la costituzionalità dell’imposta di registro sulle sentenze, ma solo quella della norma impositiva del divieto di rilascio della copia esecutiva. Si rileva, quindi, che l’interesse pubblico alla riscossione dei tributi, ove la questione fosse accolta, resterebbe impregiudicato, potendo l’amministrazione in ogni momento procedere contro il contribuente moroso, intervenendo, se del caso, anche nella stessa procedura esecutiva instaurata in base alla sentenza di cui il creditore avrà ottenuto la copia senza procedere al preventivo pagamento dell’imposta. Si richiama ancora un passo della sentenza della Corte n° 111 del 1971, rilevando che in essa si ritenne di restringere la sospensione del giudizio in attesa della presentazione della denuncia di successione entro limiti che non comportassero difficoltà od incompatibilità dell’esplicazione del diritto.

4. LA PRONUNCIA: LEITMOTIV, DIRITTO, SOLUZIONE.
La Corte Costituzionale ha precisato che con sentenza n°414 del 1989 ha già chiarito che in sede di procedimento ex art. 745 cod. proc. civ. il giudice è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 15 del D.P.R. n° 131 del 1986 è manifestamente inammissibile, perché il rimettente non motiva in alcun modo la ragione per la quale questa norma concernente la c.d. registrazione d’ufficio possa, eventualmente, in combinato disposto con l’articolo 66 precludere il rilascio della copia della sentenza in forma esecutiva. Per i giudici di piazza del Quirinale, la questione relativa all’art. 66 del citato Decreto del Presidente della Repubblica è invece fondata: la norma, dopo avere al comma 1 stabilito che i cancellieri ed i segretari degli organi giurisdizionali e gli altri soggetti indicati nell’art. 10, lettere b) e c) possono rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso da loro formati o autenticati solo dopo che gli stessi sono stati registrati, prevede al comma 2 che tale disposizione non si applica agli originali, copie ed estratti di sentenze ed altri provvedimenti giurisdizionali, o di atti formati dagli ufficiali giudiziari e dagli uscieri, che siano rilasciati per la prosecuzione del giudizio. In ragione dei limiti di tale previsione derogatoria, chi intenda procedere ad esecuzione forzata, la quale, ai sensi dell’art. 479 cod. proc. civ., deve essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva, ha l’onere del preventivo assolvimento della relativa imposta di registro, quale condizione per ottenere il rilascio dell’atto da notificare, non potendo del resto, l’esecuzione forzata considerarsi prosecuzione del giudizio. La questione di legittimità costituzionale di tale norma deve essere valutata alla luce della giurisprudenza della Corte medesima sul tema degli oneri fiscali incidenti sul processo civile, nonché dell’assetto dei rapporti fra imposta di registro e processo, conseguente alla riforma tributaria attuata sulla base della delega di cui alla Legge 9 ottobre 1971, n° 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria). D’altro canto, la Corte Costituzionale ha affermato, in epoca anteriore alla riforma, che la Costituzione non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo, sia che esse configurino vere e proprie tasse giudiziarie sia che abbiano riguardo all’uso di documenti necessari alla pronunzia finale dei giudici (sent. n° 45 del 1963, e poi sentt. n° 91 e n° 100 del 1964) ed inoltre che occorre distinguere fra oneri che siano razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione, da ritenersi consentiti, e oneri che invece tendano alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette, e, conducano al risultato di precludere o ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale, determinando la sanzione dell’incostituzionalità (sentenza n° 80 del 1966, sull’illegittimità costituzionale della norma che vietava di rilasciare copie di sentenze non ancora registrate, il cui deposito in giudizio condizionasse la procedibilità dell’impugnazione) ed ancora che l’interesse del cittadino alla tutela giurisdizionale e quello generale della comunità alla riscossione dei tributi sono armonicamente coordinati (sentenze n° 157 del 1969 e n° 61 del 1970). In altre pronunce la Corte ha invece affermato che condizionare l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, all’adempimento del suo dovere di contribuente, non contrasta con la Costituzione, salvo il caso dell’azione giudiziaria diretta a contestare la legittimità del tributo (sentenze n° 157 del 1969 e n° 111 del 1971). Il principio secondo cui l’onere fiscale non lede il diritto alla tutela giurisdizionale ove tenda ad assicurare al processo uno svolgimento conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze e non miri, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali è stato infine ripreso dalla sentenza n° 333 del 2001, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della norma che condizionava al pagamento di alcune imposte, fra cui quella di registro, l’esercizio dell’azione esecutiva di rilascio dell’immobile locato. Per altro verso, la Legge n° 825 del 1971 ha imposto al Legislatore delegato, come principio di delega, di eliminare ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (art. 7, n° 7). In attuazione di tale principio, l’art. 63 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n° 634 (Disciplina dell’imposta di registro), il cui contenuto è poi sostanzialmente confluito nell’art. 65 del D.P.R. n° 131 del 1986, ha soppresso il divieto di utilizzazione in giudizio di atti non registrati (previsto dalla disciplina precedente, la cui incostituzionalità era stata esclusa dalla Corte Costituzionale, con le citate sentenze n° 45 del 1963 e n° 157 del 1969) ed al suo posto ha previsto l’obbligo del cancelliere di inviarli all’ufficio del registro. Il Legislatore della riforma ha pertanto ritenuto che la situazione di inadempimento dell’obbligazione relativa all’imposta di registro, emergente in occasione del processo di cognizione, non può avere l’effetto di precluderne lo svolgimento e la conclusione. E’ chiaro il giudizio di valore così espresso, per cui, nel bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale, il primo è ritenuto sufficientemente garantito dall’obbligo imposto al cancelliere di informare l’ufficio finanziario dell’esistenza dell’atto non registrato, ponendolo così in grado di procedere alla riscossione. Discipline di contenuto sostanzialmente identico sono state introdotte sia pure in tempi diversi per le imposte di successione, di bollo e sul valore aggiunto. Considerando questo tipo di bilanciamento fra i due interessi alla luce del principio secondo cui la garanzia della tutela giurisdizionale posta dall’art. 24, primo comma, della Costituzione comprende anche la fase dell’esecuzione forzata la quale è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giurisdizionale (C. Cost. sent. n° 321 del 1998) appare evidente come la scelta compiuta dalla norma impugnata sia irragionevole e si risolva anche in lesione dell’art. 24 della Costituzione. Essa infatti comporta che la valutazione di bilanciamento fra l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale e quello alla riscossione dei tributi sia effettuata, per i due tipi di processo, in modo irragionevolmente diverso. L’inadempimento dell’obbligazione tributaria che pure non ha precluso lo svolgimento del processo di cognizione fino all’emanazione della sentenza o di altro provvedimento esecutivo ed ha determinato solo la comunicazione da parte del cancelliere all’ufficio del registro degli atti non registrati, impedisce inoltre che alla sentenza o al provvedimento esecutivo sia data attuazione mediante l’esercizio della tutela giurisdizionale in via esecutiva. Per i motivi riportati, i magistrati di piazza del Quirinale hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 2, del D.P.R. n° 131 del 1986, nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applica al rilascio dell’originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale, che debba essere utilizzato per procedere all’esecuzione forzata.

di Pietro Alessio Palumbo